STORIE DI CADUTI DELLA RSI                  


EROI DIMENTICATI
Lino Jocca
 
 
Da "Il Nazionale’’ del 5.2.1950 riproponiamo, su segnalazione di Carlo Panzarasa dei "Volontari di Francia’’ (Btg. "Fulmine’’, della Xa), il ritratto di un giovanissimo volontario accorso a difendere i confini della Patria.
Silvio Laboroi aveva quattordici anni, ma ne dimostrava tre di meno, anche se il suo viso cereo, dalla pelle tesa sopra un teschio che già mostrava i contorni della morte, sembrava quello d’un uomo che ha già vissuto gli orrori e il fascino della guerra. Capelli rossicci, viso di lentiggini, occhi intelligenti e intensi.
Così lo vidi una fredda mattina d’un lontano gennaio, in una corsia d’ospedale.
Era scappato di casa, mi disse, lasciando la mamma sola in un paesello della Val d’Aosta, per arruolarsi nella "Decima’’ dove altri ragazzi orfani, e coi genitori al di là della barriera, erano accolti a scopo d’assistenza e un ufficiale insegnante provvedeva alla loro educazione.
Ma egli, Silvio, non se la sentiva di fare il collegiale. Si era arruolato per fare la guerra come i grandi, lui. E imparò da solo a conoscere e maneggiare le armi automatiche.
Poi, un giorno, un’orda di slavi, le "teste di cane", sconfinarono per marciare su Gorizia e il battaglione "Fulmine" della Decima, venne inviato davanti a Tarnova per arginarli. A Silvio, naturalmente, venne negato un posto fra i partenti. Tentò d’intrufolarsi nei ranghi dei marò che facevano rintronare l’aria coi loro canti di guerra, ma venne scoperto e rimandato in camerata a pedate. Il ragazzo, che si sentiva un vero marò, non si perdette d’animo. Il giorno dopo partì un’autocolonna coi viveri, e lui, con la complicità d’un "cambusiere", si nascose tra le casse di gallette.
Giunse così a Tarnova, quando già i marò del "Fulmine" avevano preso posizione sui sacri confini. Ma le sue disavventure non erano finite: un’altra pioggia di scapaggioni lo sommerse allorché si piantò, rigido e fiero nel saluto, dinanzi al Comandante la 3.a Compagnia. Venne infine relegato nel fondo d’un bunker.
E Silvio, che nelle sue notti trepide d’adolescente aveva sognato i disperati assalti, purtroppo, dovette contentarsi solamente di ascoltare l’orchestra selvaggia delle granate, delle mitragliatrici e dei mitra.
Venne poi allontanato dalla linea del fuoco e costretto a sbucciare patate nella cucina di battaglione.
Ma una sera, Silvio diede una pedata a mestoli e marmitte e ritornò in compagnia. Si presentò al comandante una decisa espressione che dovette impressionare vivamente l’ufficiale, e non si ebbe altri scapaccioni.
Finalmente l’azione, il fuoco, il nemico... forse anche la morte! Che importava?
"A noi la morte non ci fa paura, ci si fidanza e poi si fa l’amor...".
"Samurai", mitra e bombe a mano. Silvio è pronto ad accogliere gli slavi.
Notte illune. Solo alcune stelle: sembrano le lacrime di mille mamme in trepida attesa.
Silvio pensa per un attimo alla mamma che a quell’ora soleva andare a rimboccargli le coperte. Ma ora! ... Oh, ora era un soldato vero, un vero soldato d’Italia, che faceva la guerra sul serio.
Notte da tregenda, quella, nella selva di Tarnova. Il nemico, in realtà, in gran numero, premeva da ogni dove. Ma i marinai della Decima si erano abbarbicati alle loro "buche" e avevano giurato di morire piuttosto che cedere.
E mantennero il sacro giuramento, gli eroi del "Fulmine". Cadevano ad uno ad uno, impegnati nell’impari lotta di uno contro venti.
Silvio, anche lui, senza ascoltare i consigli degli "anziani" che lo esortavano a tirarsi indietro, scaricava i caricatori del mitra sul branco che ristava, si sbandava, ritornava ferocemente all’attacco. E i trecento del "Fulmine", pur essendo oramai ridotti a poche decine, resistevano meravigliosamente, mentre i "titini" si consumavano nello scorno d’essere tenuti in iscacco da un gruppo di monelli di cui il più vecchio superava di poco i vent’anni.
Silvio, colpito alle gambe e al ventre, rimase al suo posto e si ribellò quando tentarono d’allontanarlo.
Ora il battaglione "Fulmine" della Divisione di Fanteria di Marina "Decima’’ era ridotto a pochi fantasmi che, mentre si preparavano a morire, ebbero la gioia di vedere voltare le terga agli eroi delle "foibe": un altro reparto era accorso in aiuto dei difensori delle sacre barriere.
Trovai il "marò" Laboroi Silvio una mattina di gennaio, in una corsia del Padiglione "Vicenza", dell’"Ospedale al Mare" di Venezia, mentre le bombe dei "liberatori" scoppiavano sulla Laguna e sul Lido.
Ma Gorizia italiana, che il mio babbo, come me volontario andò a conquistare nell’altra guerra, non è stata invasa... E io sono felice... Erano felici anche i miei camerati che sono morti. Morirò anch’io. Ma Gorizia è sempre italiana...
I suoi occhi brillavano e la sua bocca, di tratto in tratto contratta dagli spasimi, si spianava in un chiaro sorriso al ricordo dei titini in fuga.
Ma a Gorizia gli slavi non sono entrati...
Gli chiusi gli occhi la mattina dopo alle tre. Si addormentò placidamente dopo aver ottenuto lo scudetto del reparto, che portavano solo gli "anziani". Sulla sua tomba feci inchiodare lo scudetto sopra una croce e vi feci scrivere: "Marò Laboroi Silvio, caduto per l’onore d’Italia".
Chissà se quella tomba e quello scudetto esistono ancora! Forse non più. Forse una sacrilega mano ha profanato la tomba del piccolo soldato, perché anch’egli ritenuto "criminale". Tutti quelli che difesero la Patria fino all’ultima speranza sono "criminali".
Ma un giorno verrò sulla tua tomba, piccolo marò del "Fulmine" e t’erigerò un monumento di fiori candidi come la tua anima d’adolescente, rossi come la passione patria che t’animò e ti sostenne, verdi come la speranza - per noi certezza - che l’Italia tutta, dalle nervose cime alla Quarta Sponda, ritroverà se stessa nei suoi figli migliori.
 
 
NUOVO FRONTE N. 193 Giugno 1999. (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI) 

CARLO BAGNARESI, TESTIMONE EROICO DELLA PROPRIA FEDE
 
 
LE NOSTRE MEDAGLIE D'ORO
 
 
   L’anno scorso, in occasione della nostra partecipazione all'inaugurazione del monumento ai Caduti San Marco nella Caserma Carlotto di Brindisi, eravamo stati invitati dal Comandante Sambo a presentare la documentazione delle nostre due Medaglie d'Oro da esporre insieme a quelle delle altre formazioni San Marco, già conservate in bacheca nella Sala Storica.
    Mentre per la Medaglia d'Oro Aroldo Molesini eravamo in possesso di tutta la documentazione, per Carlo Bagnaresi mancava una foto in divisa di San Marco. Le ricerche per trovare i familiari dì Bagnaresi furono molto laboriose. Per sua iniziativa il nostro Bolchini iniziò da Altare, dove poté appurare che la salma di Bagnaresi era stata traslata nella zona del veronese nel 1955. A Verona invitammo il nostro San Marco Tito Diamanti a raccogliere altre informazioni, ed egli si prodigò insieme al San Marco Italo Corso in ulteriori ricerche, non semplici dato che a Verona esistono altri cimiteri. Con encomiabile costanza riuscì a localizzare il loculo che custodisce le spoglie di Bagnaresi nel cimitero di San Massimo all’Adige, alla periferia di Verona verso Peschiera, e riuscì a sapere che l'unico parente diretto esistente è il fratello Sauro, residente in Brasile. Avuto l'indirizzo gli presentammo il nostro problema ed egli immediatamente ci inviò la foto da noi tanto desiderata in divisa di San Marco.
   La foto è stata trasmessa a Brindisi e il prossimo aprile '98 potremo vederla esposta nella Sala Storica insieme a quella di Molesini.
   Voglio ringraziare sentitamente quanti si sono prodigati in queste non facili ricerche, e precisamente Bolchini, Diamanti, Corso, e anche Giovanni Griso dell’Associazione Marinai di Verona e Giambattista Mancina, fratello acquisito di Bagnaresi, tutti coinvolti nelle varie ricerche dall'instancabile Tito Diamanti. Un grazie di cuore a nome di San Marco.
 
Odoardo Zenesini
 
 
    Il 15 novembre ricorre il cinquantatreesimo anniversario della morte di Carlo Bagnaresi, ufficiale della 6a Cp. II Btg. del 6° Reggimento Fanteria di Marina, fucilato dai partigiani dopo una lunga serie di tormenti, umiliazioni e vere e proprie torture fisiche e morali a cui Egli sempre oppose il suo coraggio e la sua fede indomita nell'Italia. E' difficile ancora oggi rileggere senza commozione ed angoscia la storia dei suo calvario; unico conforto è il sapere che non l'Italia ufficiale delle istituzioni, ma il senso dell'onore e della tradizione, e il rispetto di soldati autentici, ha voluto che la sua memoria e la documentazione della Medaglia d'Oro a lui conferita, siano conservati nella attuale sede del Raggruppamento Anfibio, assieme a quelle di tutti coloro che, combattendo ovunque per l'Italia sotto l'insegna di San Marco, ottennero tale altissimo riconoscimento.
    Nei tre volumi "San Marco, San Marco", - Storia di una Divisione -, sono ampiamente riportati i documenti e le testimonianze di allora, che nonostante il linguaggio burocratico e gli errori dei dattilografi, sono la più potente dimostrazione della sua fede e del suo coraggio. Lo spazio tipografico non ci consente di riportarli integralmente, e a quei volumi vi rimandiamo.
    Oggi il ricordare Carlo Bagnaresi per noi significa inoltre ricordare anche quanti, noti o ignoti, nel loro sacrificio non ebbero alcun riconoscimento, o ebbero riconoscimenti che possono sembrare minori a chi non ne comprenda l'altissimo significato morale.
 
 
Carlo Bagnaresi
 
 
I FATTI
    Tra l’1 e il 4 ottobre del 1944 nel Piemonte meridionale, tra Cairo Montenotte e Millesimo a sud, Pezzolo e Castelletto Uzzone a nord, su un fronte di una ventina di chilometri, con direzione est ovest, da Dego verso il Bembo, si sviluppò una vasta operazione di rastrellamento che aveva lo scopo di garantire la sicurezza delle retrovie dei reparti schierati a difesa costiera dell'arco ligure e sulla linea appenninica. La Divisione San Marco vi prese parte con il 3° Gruppo Arditi Esploratori e con reparti del 6° Rgt. Fanteria di Marina. Di questo faceva parte il Sottotenente Carlo Bagnaresi, comandante del l° plotone della 6a compagnia, che operava a rinforzo sul fianco destro del Gruppo Arditi. Per l'impossibilità di mantenere i contatti tra i reparti, vista la conformazione del terreno e l'assenza di apparecchiature radio portatili, il plotone Bagnaresi si trovò isolato, e giunto a Pezzolo, attaccato da preponderanti forze partigiane. I fanti di Marina si trincerarono allora nel Municipio del paese. Il sottotenente Bagnaresi ed il vice comandante del plotone, sottocapo Giuseppe Griseri uscirono dall'edificio per affrontare una autoblinda che tentava di avvicinarsi mascherata sotto insegne germaniche. Il primo fu ferito al petto da un proiettile di mitragliatrice che lo attraversò da parte a parte, il secondo morì, colpito al capo. I marò riuscirono comunque a recuperare il loro ufficiale, e finché possibile continuarono nella difesa della posizione, incitati dal Bagnaresi che, nonostante la gravità della ferita, continuò a battersi fino a che, stremato, non cadde nelle mani del nemico.
    Durante l'interrogatorio a cui venne sottoposto l'ufficiale mantenne un contegno fiero, non venendo mai meno ai suoi ideali e alla sua fede, guadagnandosi l'ammirazione degli stessi partigiani presenti, che comunquelo condannarono a morte. Nell'attesa della sentenza fu ricoverato nell'Ospedale di Cortemilia, a nord della località dove era stato catturato, e trovò posto nella stessa camera dove era ricoverato anche il sergente Lino Sapori, uomo di San Marco ferito e prigioniero dei partigiani, e anch'egli condannato a morte dal tribunale partigiano, ma che riuscì fortunosamente a sfuggire all'esecuzione, e la cui testimonianza fu poi fondamentale per la concessione della Medaglia d'Oro.
    Il giorno 4 novembre Carlo Bagnaresi fu condotto alla periferia del paese per l'esecuzione. Per tre volte il mitra del partigiano Perez scattò a vuoto, e il tenente partigiano Dario, che comandava l'esecuzione, decise di soprassedere. L'ipotesi che qualcuno avanzò allora, che si fosse trattato di una falsa esecuzione organizzata per spezzare la resistenza morale dell'ufficiale della "San Marco", non riduce, ma anzi aumenta il valore da questo dimostrato affrontando con coraggio supremo per ben tre volte di seguito la morte minacciata ed attesa, e non cedendo minimamente alla volontà del nemico di piegarlo, nemmeno nei lunghi giorni che ne precedettero la vera esecuzione. La sera del 15 novembre, Bagnaresi e il sergente Sapori furono condotti innanzi al cimitero di Castino per essere fucilati. In precedenza il comportamento di Bagnaresi gli aveva fatto ottenere di essere fucilato in uniforme, di poter prima salutare i suoi soldati prigionieri, di essere fucilato al petto, e che venisse comunicato alla famiglia il luogo della sepoltura. Giunti sul luogo dell'esecuzione, i due morituri chiesero di poter avere ognuno una bara, affinché in seguito i familiari potessero ritrovarne le salme. Poiché una sola bara risultò disponibile, il sottotenente Bagnaresi pretese di essere fucilato per primo, e che il sergente non venisse fucilato in mancanza di una bara. Messosi sull'attenti, chiese di avere il petto illuminato da una lampada perché l'esecutore non sbagliasse il colpo. Cadde poi gridando "Viva San Marco, Viva l'Italia repubblicana".
    L’alta decorazione richiesta dal Generale Farina non venne concessa immediatamente, ma ottenne l'approvazione del Maresciallo Graziani solo dopo accurata inchiesta.
 
IL TESTAMENTO SPIRITUALE
    La sera del 3 Ottobre, gravemente ferito da una pallottola della mitragliatrice della autoblinda che arditamente aveva affrontato, poco dopo la cattura, presagendo di morire, il S.Ten Bagnaresi dettava ad un sacerdote la seguente lettera per la famiglia:
 
Miei carissimi,
    non avrei mai voluto che questa lettera dovesse essere scritta. Ad ogni modo è doveroso e giusto che io vi dia mie notizie sino all'ultimo. Oggi 3 ottobre sono stato ferito in combattimento da una pallottola di mitragliatrice che mi ha trapassato il polmone destro. Scrive per me a voi, miei carissimi, un sacerdote, perché io non sono in grado di farlo. Questa lettera sarà spedita soltanto quando io non ci sarò più.
    Spero che dal momento della partenza fino all'arrivo nelle vostre mani i giorni non siano troppi. E’ meglio una dolorosa verità che una penosa incertezza. Miei cari, io sono calmo e non mi dispero per la sorte che Dio ha voluto per me. Ho voluto rimanere fedele ai miei principi e per questo pago di persona. Ma credo, e voi lo sapete, che in ogni occasione eguale non avrei cambiato strada.
    Quando arriverò al momento, allora sarò in pace con il cielo e con la terra. Il mio unico dolore è il vostro, che so purtroppo grande. Ma voi continuate ad amarmi anche dopo e non maledite ciò che è avvenuto. Ritornerò con Beppe e con gli altri miei camerati.
    Addio, miei adorati. Sauro sarà colui che dovrà ricevere la mia parte di affetti. Fatelo crescere virtuoso e forte. Vi abbraccio infinitamente
                                                     vostro Carlo
 
 LA MOTIVAZIONE DELLA MEDAGLIA D'ORO
    "In missione armata per riportare alla Patria figli traviati, attaccato da reparto avversario superiore, affrontava da solo una autoblindata. Isolato, sopraffatto, ferito grave ad un polmone, con il braccio destro inutilizzato, si asserragliava con pochi in una canonica. Catturato, adescato con cure e lusinghe per più giorni, richiamava tutti al dovere. Portato davanti alla fossa per essere fucilato nel giorno dei santi, in nome di santa Italia una, tanto imponeva della sua volontà all'avversario che le armi rifiutavano tre volte il fuoco fratricida. Al nemico che intimidito gli offriva grazia, rispondeva "Italia e San Marco! ". Dopo altri quindici giorni di dolore,alla catena della morte, in oscura segreta, riportato alla fucilazione assieme al suo sottufficiale, reclamava per questi il diritto ad una cassa mortuaria perché la madre potesse un giorno ritrovarlo. Avendo i fratricidi una sola bara, con le ultime forze della sua volontà imponeva di rimandare la fucilazione del sottufficiale. Facendosi illuminare il petto perché meglio potesse essere colpito, si ergeva impavido dì fronte al piombo ribelle, ordinava il fuoco e cadeva onorando la patria al grido di "San Marco e Italia", morendo come i re non hanno saputo morire. Pezzolo, 3 ottobre 1944 XXIII - Castino di Cortemilia, 15 novembre 1944 XXIII.
 
SAN MARCO N. 18. 1997 (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)

LEONE TONIAZZO Impiccavano i soldati prigionieri.
Lino Cecchin
 
 
    Non aveva ancora compiuti 18 anni quando i suoi camerati della Decima MAS lo seppellirono nel Cimitero di Carrara il 30 giugno 1944....
    Parlando di Lui narriamo la vicenda dei mille e mille giovani italiani che immolarono al loro fresca esistenza negli anni bui della lotta fratricida.
    Era nato a Molvena di Vicenza nel 1926, da umile onorata famiglia. Educato a sentimenti religiosi, fu fin da giovinetto attivo gregario delle associazioni cattoliche, Aveva da poco ultimate le scuole primarie quando scoppiò la guerra ed egli accorse ad arruolarsi volontario nella R. Marina. Seguì il corso di specializzazione come cannoniere e fu promosso Sotto Capo. Si trovava imbarcato su una goletta quando sopraggiunse l'8 settembre infausto: era l'ora della resa, del disonore cui il suo cuore si ribellò nel nome dei Morti traditi.
    Ai primi albori della R.S.I. non tentennò, non cercò la via comoda cui aveva diritto non essendo ancora chiamata la sua classe di leva, ma scelse la via dell'onore e del rischio e corse ad arruolarsi nella Decima Flottiglia MAS, superando l'angoscia dei genitori. In una delle sue ultime lettere scrisse:
    « ... Mamma, la lotta si fa sempre più cruenta e tragica. Può darsi che Dio esiga l'offerta della mia vita, Ti prego, sii forte e fiera e non abbatterti. Se dovrò morire, sappi che saprò morire da soldato, senza mai tradire!»...
    La lettera porta la data del 24 giugno 1944, era una delle sue ultime missive di amore, di pianto, di fede. Era il saluto estremo che un giovine figlio d’Italia, inviava a colei che gli aveva dato la vita.
    Il successivo 27 giugno, si trovava con una pattuglia in una posizione a nord di Carrara in località Monte Cecina ad oltre 1500 metri, intento a trasportare il materiale rimasto per il battaglione che stava partendo da quelle posizioni, quando veniva circondato da un gruppo di circa 30 armati mascherati, che sparavano occultati dalla fitta boscaglia. L'agguato implacabile e freddamente preordinato non dà possibilità di scelta: dinanzi alla massa soverchiante non rimane che la resa o lo sterminio. Ma in quel supremo momento in cui l'uomo comune si rifugia nell'istintivo egoismo della conservazione, balza innanzi l'Eroe che sopraffà la sua fragile natura umana e si lancia impavido contro la morte e la sfida « ... Decima, avanti!» è il suo grido mentre balza fuori da ogni protezione. Il plotone si rianima e disperatamente riprende la lotta, aprendosi un varco fra gli assalitori che rimangono sbigottiti da tanto temerario gesto...
    Alcuni superstiti riescono a raggiungere il grosso. L'allarme viene dato e subito i rinforzi accorrono sul posto. Trovano il giovane Marò rantolante che, colpito gravemente alle cosce da numerose pallottole, era stato ritenuto morto dai partigiani. Il camerata che aveva voluto rimanere al suo fianco per l'ultima difesa, viene trovato, appeso a un albero appiccato con un filo di ferro.
    Trasportato urgentemente all'ospedale di Carrara, Leone Toniazzo, nonostante le solerti cure, dopo tre giorni di strenua lotta contro la morte, dopo aver dettato nobilissime parole di fede e rincuorato i suoi commilitoni che lo attorniavano, con il nome di Dio, di Patria, di mamma, si estinse, chiedendo con un filo di voce che intonassero il canto della Decima...
    E la voce rotta dal pianto si levò accanto al suo letto di morte intonando la canzone dell'amore e della fede nella resurrezione della 'Patria...
    ... e giunse alla Madre, così come giunse a mille e mille Madri d’Italia, la ferale notizia, e lei pure, come mille e mille Madri d'Italia, rinchiuse in se il suo atroce dolore e la sua vita divenne il calvario sul quale era la croce del Figlio.
    E nel dì dei Morti giunse alla desolata Famiglia la comunicazione della concessione della Medaglia d'Argento alla Memoria con queste parole:
 
IL SOTTOSEGRETARIO DI STATO per la MARINA 
    Alla Famiglia Luigi Toniazzo via Cairoli Marostica « Al Vostro eroico Figlio, con l'allegato n. 1 al foglio d'ordini n. 52 del 18.10.1944 di questo Sottosegretariato, è stata conferita, con decreto in corso di perfezionamento, la Medaglia d'Argento «sul campo» alla memoria con la seguente motivazione:
    - Assalito da soverchianti forze ribelli, rimasto ferito gravemente e benchè caduto continuava a far fuoco finché gli s'inceppava il fucile. Moribondo all'Ospitale, esprimeva al Comandante del Battaglione la sua fede ed il suo desiderio di tornare presto a combattere. In seguito a ferite riportate decedeva dopo poche ore, immolando la sua giovane vita, per l'Onore della Patria -.
    Il brevetto e la relativa insegna metallica saranno inviati a suo tempo dall’Ufficio Ricompense al Valore Militare di questo Sottosegretariato.
    La Marina, fiera di questo nuovo eroe, Vi rinnova le sue condoglianze, sicura che il suo olocausto sarà alto incitamento al dovere, e il suo, ricordo sprone per i figli migliori che hanno scelto la via del dovere e dell'onore.
    d'ordine IL DIRETT. GENERALE Capitano di Fregata (Gino Spagone)
 
    Di recente abbiamo chiesto alla fiera Madre di poter trasportare le sue ossa nella terra del paese dove era nato e dove aveva mosso i primi passi. Volevamo che ritornasse avvolto nel Tricolore d'Italia di cui tanto era degno, per riceverlo con gli onori che si merita e con la commossa riconoscenza di tutti coloro che non tradirono; ma Essa ci ha risposto:
    «Ho troppo sofferto, ho troppo pianto... Desidero che il mio Leone venga riesumato dal Cimitero Civile di Carrara per essere tumulato nel Cimitero Militare di Turigliano per riposare accanto ai suoi compagni nel sacrificio ». Rinuncia immensa, dono commovente e fierezza di donna italiana.
    Il Ministero ha già autorizzata la traslazione e i Camerati vicentini converranno a Carrara nel dì segnato, e recheranno sulle braccia le ossa dell'eroe Leone Toniazzo, avvolte nel tricolore, circonfuse nell'aureola di Gloria.
 
 
L’ULTIMA CROCIATA N. 65. 1959 (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)

ENZO SAVORGNAN 
f.c.a.
 
 
    I1 26 settembre, nel cimitero di Belforte (Varese), è stata esumata la Salma del Conte Enzo Savorgnan di Montaspro, già prefetto di Varese, cui, prima della traslazione alla tomba gentilizia di Cormons, sono state rese austere onoranze.
    Alla mesta cerimonia erano presenti, oltre alla Vedova, al Figlio ed al Fratello, il prefetto Bolandi della R.S.I., il vice. prefetto di Varese dr. Mollo, il comandante la Legione dei Carabinieri, ten. col. Camerini, l'ispettore nazionale del M.S.I. per l'Alta Italia, gen. Aldo Marchese, il gen. Toccolini del Nastro Azzurro, il gen. Bocchio dell'Ass. Arma Milizia, il col. Loffredo dell'Ass. Combattenti e Reduci, la Sig.ra Bice Adamoli Macchi, sorella di due trucidati pure sepolti a Belforte, Dirigente milanese dell'Ass. Famiglie Caduti della R.S.I., col labaro dell’Associazione nazionale, la signora Amina Secchi, segretaria della Delegazione varesina che recava un fascio di fiori, la signora Giuseppina Cantoni della Delegazione milanese, la dr. Nike Chiaverano della Consulta Nazionale femm. del M.S.I. il Commissario della Federazione M.S.I. di Varese, dottor Migliani, Angelo Berenzi componente il Comitato Centrale del M.S.I. e la Consulta naz. dell'Associazione naz. volontari di guerra e le rappresentanze del Raggruppamento giovanile, del Gruppo Sportivo Fiamma e del Settore femminile del Movimento Sociale di Milano e Varese, con labari e gagliardetti. La commovente funzione, monito, e ricordo della luminosa figura del Conte Dr. Savorgnan, si è svolta con solenne semplicità; dopo la benedizione impartita da padre Danieli del Santuario della Brunella, i gagliardetti e la folla sfilavano in silenzio e si disperdevano tra le tombe degli altri martiri varesini.
    Un omaggio particolare hanno ricevuto le tombe dei due fratelli Giuseppe e Felice Macchi.
    La salma di Enzo Savorgnan di Montaspro, assassinato a Varese nel 1945, sarà traslata per essere tumulata nella tomba gentilizia a Cormons.
    Cerimonia intima, naturalmente, chè gli eroi ed i servitori della Nazione, fedeli fino alla morte, non hanno diritto a pubbliche attestazioni di stima in questa democrazia instaurata dalle armi straniere sulle rovine morali e materiali della Patria. (E' di ieri il funerale di Marino Marini, il leggendario aerosiluratore, nove volte decorato al valore, onorato dalla assenza di qualsiasi rappresentanza ufficiale).
    Ma non ci rammarichiamo dell'assenza di « estranei» intorno ai nostri morti, che ci consente di sentirli ancora più vicini a noi, al nostro spirito immutato, sempre fedeli a quegli ideali che Essi confessarono in cospetto della morte.
    Noi, i sopravvissuti non degeneri e non immemori, ogni volta che ci stringiamo intorno ad una di queste spoglie gloriose e ci riconosciamo nel comune ideale, ne traiamo il conforto di poter essere ancora, per virtù loro, soltanto per virtù loro, orgogliosi essere italiani.
    Il N.H. Enzo Savorgnan di Montaspro, conte palatino, dottore in giurisprudenza ed in scienze politiche, capitano dei Granatieri di Sardegna, più volte decorato al valor militare (1 medaglia d'argento, due di bronzo, tre croci di guerra), nato il 10 ottobre 1910, visse la sua breve vita interamente al servizio della Patria. Sebbene votato, per tradizione aristocratica e per attitudine personale, alla carriera diplomatica, ne fu distolto dalle vicende belliche alle quali volle partecipare volontariamente. Nel 1935 fu in Africa Orientale e prese parte a tutti i fatti d’arme nei quali fu impegnata la Divisione 23 Marzo, comandata dall’eroico generale Francisci, che doveva poi diventare suo suocero. Fu successivamente volontario, nella guerra antibolscevica di Spagna, dove pure si distinse, ed infine partecipò, come capitano dei Granatieri di Sardegna, all'ultima guerra mondiale, sul fronte greco-albanese. Ebbe pure incarichi politici: vice segretario federale del P.N.F. ad Aosta, segretario federale di Trapani, ed infine, dal 2 al 25 luglio 1943, segretario federale di Verona. Richiamato a Roma durante lo infausto periodo badogliano, rivestì disciplinatamente la divisa. L'8 settembre 1943 si trovava in licenza a Cormons e, naturalmente nella caotica situazione succeduta alla resa badogliesca non poté più rientrare al suo reparto. Si recò allora a Verona dove riaprì la Federazione fascista raccogliendo molte adesioni fra coloro che vedevano in lui, nella sua adamantina figura di cittadino e di soldato, un esempio da seguire. Il 25 ottobre 1943 fu nominato capo della provincia di Reggio Emilia, carica che resse con vivo senso di umanità e con assoluta dedizione al dovere nelle difficilissime circostanze dell'ora, fino al settembre 1944, allorché fu trasferito a reggere la prefettura di Varese, dove rimase fino al 28 aprile 1945, allorché, caduto nelle mani della canaglia trionfante, fu sommariamente fucilato secondo la civile pratica dei tempo: morì nobilmente, da soldato. Aveva 35 anni e lasciava la giovanissima moglie, donna Fernanda, (figlia del generale Francisci, medaglia d’oro, caduto in Sicilia sul campo) ed un figliolo di quattro anni.
    Mentre c'inchiniamo reverenti dinanzi alle spoglie del Caduto, desideriamo che la Sua Consorte, nel cui animo, nobilmente sensibile agli ideali per i quali suo Padre e suo Marito sacrificarono la vita, è tanto degnamente custodita la memoria degli eroici congiunti, ci consideri vicini in quest'ora che evoca momenti tanto dolorosi al suo cuore.
 
 
L’ULTIMA CROCIATA N. 65. 1959 (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI) da "La Vedetta Lombarda".

S. TENENTE ALDO SEVERINI Nel ricordo di un'ausiliaria del "Montebello"
Alda Paoletti
 
 
    Aldo Severini fu il primo, fra i "tenenti giovani" (così i militi soprannominarono subito quelli provenienti dalle Scuole AA.UU.), ad arrivare al "Montebello”. Fui io stessa, allora all'Ufficio Matricola, a registrare i suoi dati. Una cosa me lo rese subito simpatico: aveva combattuto in quella che io consideravo "la mia terra" e cioè in Libia. Infatti aveva lasciato gli studi per andare ad arruolarsi fra i Giovani Fascisti ed aveva avuto la "fortuna" (così diceva luì) di essere fra quelli che erano partiti per la Libia e si erano coperti di gloria a Bir-el-Gobi. Aveva fatto poi la ritirata con gli altri, ma, essendo rimasto ferito in combattimento, era stato rimpatriato in licenza di convalescenza. Mentre era in Italia, le truppe italiane si erano arrese in Tunisia e questo lo aveva salvato dalla prigionia. L'otto settembre non aveva esitato ad arruolarsi sotto la bandiera della Repubblica Sociale Italiana. Aveva frequentato il Corso AA.UU. "Orvieto" ed era stato promosso sottotenente. Sebbene molto giovane, aveva però esperienza di guerra, e spesso mi raccontava episodi della loro lotta, di cui Bir-el-Cobi rappresenta il momento più famoso e conosciuto, ma non il solo.
    Era un marchigiano "tosto" e se ne accorsero quelli del suo plotone, i quali, per lo più anche loro "tosti" perché carrarini (quasi tutto il Btg. "85° M" di Carrara era confluito nel "Montebello"), si affezionarono a lui e lo seguivano dovunque perché, dicevano, "lui non manda, va, ed è sempre il primo, e non possiamo certo lasciarlo andare da solo".
    Si mise subito in luce come comandante capace, abile e pronto nelle decisioni; riusciva ad ottenere il massimo con il minimo di perdite. Non ricordo infatti che nel suo plotone ci fossero stati dei Caduti. Potrei aggiungerle molte cose, che i suoi militi mi raccontavano di lui, ma le compendio in una frase: "era molto in gamba". Vorrei però rievocare un episodio che non mi è stato raccontato, ma che ho vissuto in prima persona.
    Il reparto operativo dei CXV Btg. "M" Montebello era dislocato a Vallemosso e Cossato in funzione anti Moranino, perché c'erano state forti proteste (ancorché sommesse e timorose) della stessa popolazione contro i soprusi e le atrocità che Moranino e la sua banda commettevano.
    L'Ufficio Maggiorità era dislocato a Vallemosso, ma verso il 5/6 aprile il Comandante Maggiore Sanchini fece una rapida visita in quella zona e decise di spostare ]'Ufficio Maggiorità a Cossato. Fu chiesto, per non indebolire il presidio di Vallemosso, che la IV Compagnia di stanza a Cossato mandasse un plotoncino per accompagnarci da Vallemosso a Cossato.
    Il Capitano Barretta mandò Severini. Ebbene, sapete come organizzò la sua venuta? Lui viaggiava in mezzo di strada, con un cagnolino al guinzaglio, completamente solo, mentre i suoi militi percorrevano, divisi in due gruppi, i due lati di bosco collinare che fiancheggiavano la strada stessa. Nessun partigiano si azzardò a farsi vedere e lui se ne venne tranquillo tranquillo a rilevarci. Al ritorno ci spararono alcuni colpi di arma da fuoco, ma probabilmente da molta distanza perché non successe nulla. Al Maggiore Sanchini però saltarono i nervi e poiché c'erano nelle vicinanze due case lungo la strada, fece fermare due giovani che si trovavano nelle suddette case e minacciò severi provvedimenti nei loro confronti. Nel contempo arrivò trafelato Severini, che lo fermò, gridando: "Ma avete guardato le mani?". Nessuno ci aveva pensato ed egli si arrabbiò moltissimo, perché dalle mani sporche di terra e callose riconobbe che erano veramente innocenti. Ebbe il coraggio di protestare vivamente col Maggiore dicendo che la guerra si fa ai nemici, non al primo che ha la disgrazia di capitarci a tiro, e che la nostra sicurezza non era mai stata messa in pericolo perché il suo plotone aveva ben vigilato, talché quei colpi non erano probabilmente diretti a noi. (Infatti poco dopo incontrammo un plotone del "Pontida" che era stato il destinatario di quei colpi, anche se senza conseguenze). Il Maggiore si arrese, suo malgrado, al giudizio vivacemente espresso dal suo subordinato. Ammirai molto il coraggio con cui Severini, che aveva fama di essere implacabile con i nemici, si ribellò a quella che riteneva una palese ingiustizia.
    Alcuni giorni fa, tornando dalla Liguria, vidi ad una uscita l'indicazione "Staglieno". Severini, o meglio le povere sue ossa che furono pietosamente riesumate dalle nostre eroiche donne, riposa ora là, in mezzo a tanti altri giovani come lui colpevoli di aver creduto in un mondo migliore, di aver creduto alla parola di quelli che ritenevano fratelli e che con l'inganno avevano fatto cedere le armi fino a quel momento invitte, per poi scatenare la loro furia bestiale su uomini inermi che si erano arresi.
    Quando ti penso, Tenente Severini, tu che lasciasti il tuo sangue sulle sabbie dell'Africa per poi venire a morire per mano fratricida nella tua Patria, quando penso a tutti gli altri del mio meraviglioso Battaglione, trucidati senza pietà e senza ragione, un groppo mi stringe ancora la gola, e mi torna prepotente, la voglia di non mollare, perché il tuo, il vostro sacrificio non sia stato vano, perché nessuno torni ancora a sputare su quel Tricolore bagnato dal vostro sangue, santo perché sparso per la Patria.
 
 
NUOVO FRONTE N. 179. Dicembre 1997 (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI) 

"IL PRIMO E L’ULTIMO"
Nino Arena
 
 
     Non meno di 220 furono i piloti - ufficiali, sottufficiali e allievi - caduti fra i ranghi dell'ANR nei 20 mesi della RSI. Oltre il 20% del personale navigante disponibile nella RSI si era sacrificato per adempiere al proprio dovere di aviatori e di italiani, nel tentativo forse impossibile ma generoso, di difendere l'Italia e i suoi cittadini.
    Fra tutti questi indimenticabili soldati dell'onore, abbiamo scelto simbolicamente due storie legate ad altrettanti personaggi, ma tutti sarebbero a nostro giudizio meritevoli di menzione, poiché ricordare questi aviatori significa ricordarne molti altri ed onorarli tutti - i più conosciuti ma soprattutto gli sconosciuti - spesso emarginati, anonimi pur anagrafati, semplici nelle loro manifestazioni quotidiane.
    La storia del primo - un giovane sottotenente pilota di nome Sergio Orsolan - si concluse tragicamente al suo esordio in combattimento con l'ANR; la storia del secondo - maggiore pilota Adriano Visconti - ebbe ugualmente tragico epilogo con una raffica di mitra alle spalle, dopo essere sopravvissuto a cento e cento combattimenti ed essersi ritrovato a fine guerra casualmente vivo ma col destino segnato da uomini vili.
    La vita di aviatore di Sergio Orsolan inizia nel gennaio 1940 alla scuola di volo di Grosseto, prosegue nell'Accademia Aeronautica di Caserta da cui esce sottotenente in SPE nel febbraio 1943, continua con la scuola caccia di Gorizia e l'assegnazione al 3° Gruppo autonomo CT dislocato in Sicilia.
    Il 3 marzo abbatte in combattimento un P. 38 "Lightning", lotta strenuamente alla difesa dell'isola invasa dal nemico e si ritrova nel settembre a Caselle torinese in attesa di ricostituire il suo reparto decimato e privo di aeroplani.
    Rientra a casa dopo molte peripezie, si presenta nell'ANR e viene assegnato al 2° Gruppo CT nella squadriglia del capitano Drago, dove ritrova i vecchi compagni della Sicilia e rinnovato entusiasmo per tornare a combattere.
    Nella primavera del 1944 il reparto può considerarsi pronto a riprendere la lotta e il 25 maggio decolla su allarme da Cascina Vaga di Pavia con altri 9 G.55 per intercettare bombardieri scortati da caccia diretti dal mar Tirreno in Lombardia: sono B. 24 "Liberator" scortati dai soliti P. 38 già conosciuti in Sicilia.
    Il combattimento si accende ad oltre 5000 metri d'altezza, si fraziona in duelli e attacchi ai quadrimotori con l'abbattimento di un "Lightning" ad opera proprio di Orsolan, di un "Liberator" per attacchi di Feliciani e mitragliamenti agli altri aerei da parte di Drago, Fagiano, Mingozzi, Camerani, Luziani, Marin.
    Nella mischia il "Centauro" di Orsolan rimaneva colpito e precipitava nei pressi di Travo/Bobbiano in provincia di Piacenza distruggendosi in frammenti così minuti da rendere particolarmente difficile la pietosa opera di recupero fatta da un umile fabbro del posto - Luigi Bozzarelli. Egli raccolse in una cassettina di legno pochi resti e la seppellì poco distante dal punto in cui era caduto l'aereo. Soltanto due anni più tardi, a guerra finita, fu possibile rintracciare con fatica la cassetta e consegnarla ai familiari per una cristiana sepoltura.
    Sergio, giovane eroe del cielo, moriva a 26 anni per una Italia che intendeva difendere e che non meritava il suo sacrificio, poiché 10 anni più tardi, dimostrando indifferenza e ingratitudine vergognosa, concedeva ai familiari dello sfortunato pilota, una pensione di L. 10.000. Tanto valeva la vita di un aviatore per l'Italia della resistenza e della corruzione generalizzata.
    "Chiedi infinito cielo d'ogni bellezza adorno, so che a chi doni l'ali, la vita chiedi in dono" scriveva quasi come un presagio Sergio Orsolan in una delle sue ultime poesie.
    La storia di Adriano Visconti ugualmente tragica, si concludeva non nel cielo, suo naturale elemento, ma nel tetro cortile di una caserma milanese il 29 aprile 1945: una fine amara, non certamente quella riservata agli aviatori, avvilente per chi a 47 anni da quei fatti, dimostra ancora, ignorandoli volutamente, viltà, grettezza d'animo, opportunismo. Visconti non fu un pilota come tanti altri, ma l'Asso indiscusso dell'Aviazione italiana nella 2a guerra mondiale con 26 abbattimenti accreditati: pochi se rapportati a quelli degli assi più famosi, ma ottenuti però con aerei impossibili, quasi disarmati, sicuramente obsoleti anche trattandosi di MC.202, nel confronto con Spitfire, Mustang, Zero, Messerschmitt, Yakovlev con cui operarono i piloti stranieri.
    Visconti potrebbe benissimo identificarsi per audacia e comportamenti con Baracca, Ruffo di Calabria, Scaroni Assi della 1a guerra mondiale - che meritarono ugualmente per il loro valore ricompense e medaglie, onori particolari, intestazioni di reparti e aeroporti, monumenti e strade cittadine con la trascrizione onorifica del loro passato sui libri di storia e nei testi ufficiali dell'Aeronautica.
    Visconti, combattente della R.S.I., non ebbe niente di tutto questo se non la voluta dimenticanza del suo nome e delle sue gesta da parte dei responsabili al vertice dell'aviazione italiana con l'accurata estromissione del suo passato da ogni celebrazione ufficiale. L'ipocrita osservanza della politica manichea e la congiura imbarazzata del silenzio evitavano rischi di carriera per chi allora comandava. Eppure si consideri che alcuni dei suoi assassini sono assurti immeritatamente a rappresentanti del popolo, mentre la viltà di chi si è prestato ad una politica spregevole è stata ripagata con la vergogna e l'emarginazione: avvilente conclusione dell'omertà anche il disprezzo dei potenti di turno.
    Mentre il giovane Orsolan imparava a volare Visconti iniziava a combattere volando per 1400 ore di attività bellica, partecipando a 591 missioni di guerra con 72 combattimenti, abbattendo 19 aerei prima e altri 7 dopo l'armistizio, due volte abbattuto in battaglia, ferito, menomato fisicamente per postumi; un risultato di grande rilevanza morale compendiato dall'assegnazione di 6 medaglie d'argento, 2 di bronzo, due promozioni per meriti di guerra, le croci di ferro di 1 e 2 classe e soprattutto il meritato titolo di Asso dell'Aviazione italiana nella 2a guerra mondiale conquistato a 30 anni di età al comando del 1° Gruppo Caccia dell'A.N.R.
    Una grande sala dedicata al settore aeronautico del Mall Memorial Lincoln di Washington è dedicata agli Assi della 2a guerra mondiale, suddivisi per nazione e con a fianco il numero degli abbattimenti e le indicazioni necessarie a corredo della foto esposta. Per l'Italia figurano degnamente Adriano Visconti e Franco Bordoni-Bisleri (24 vittorie). Come tutti gli altri, sono stati selezionati e designati come rappresentanti delle singole nazioni da una commissione internazionale di piloti (l'Italia ufficiale non ebbe alcun componente nella commissione) ma la scelta di quegli aviatori stranieri non venne offuscata dal dubbio scegliendo Visconti per l'Italia.
    Conosciuto e onorato all'estero, negletto ed emarginato in patria da una antistorica viltà è visto annualmente da milioni di visitatori stranieri, che ammirano gli uomini più valorosi nella guerra nei cieli.
    Noi continueremo a ricordarlo e onorarlo come sempre, poiché viviamo del suo passato e delle sue gesta, sapendo che Adriano riposa finalmente in pace confuso fra conosciuti o sconosciuti combattenti dell'onore nel suggestivo campo 10 del Musocco di Milano; la città dove venne vilmente ucciso da partigiani con una raffica sparata alle spalle. Secondo il loro abituale comportamento.
 
 
ASSI DI GUERRA DELLA 2a GUERRA MONDIALE CON PIÙ VITTORIE
 
 
TRIPARTITO
 
Germania  Maggiore Erich Hartmann vittorie 352
 
Giappone  Comandante Hiroyashi Nishizawa 104
 
Italia   Maggiore Adriano Visconti  26
 
Finlandia  Capitano H.H. Wind   75
 
Romania Colonnello Constantino Cantacuzino 60
 
Vittorie di piloti del Tripartito    621
 
 
ALLEATI
 
Inghilterra  Colonnello J.E. Johnson  38
 
Commonwhealt   Sud Africa Maggiore M.T.S.  Pattle 41
 
Australia Colonnello C.R. Caldwell 28
 
Canada Capitano G.F. Beurling 31
 
N. Zelanda Ten. Colonnello C.F. Gray 27
 
Irlanda Ten. Col. B. Finncane 32
 
Stati Uniti   Maggiore Richard Bong 40 
 
Francia  Magg. P.H. Closterrnann 33
 
U.R.S.S.  Magg. Gen. I.N. Kozehdub 62
 
Polonia Ten. Col. W. Urbanowicz 20
 
Cecoslovacchia Tenente J. Frantisek  28
 
Vittorie di piloti alleati     380
 
 
STORIA VERITA' N. 6 Maggio-Giugno 1992 (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)

MAGGIORE PARACADUTISTA MARIO RIZZATTI, MEDAGLIA D’ORO La storia del comandante paracadutista caduto nella battaglia per la difesa di Roma
Lao Monutti
 
 
    Nella miriade di cippi costellanti l’Italia, su di una lastra di marmo a sud di Roma, fra Castel di Decima e Malpasso, un’iscrizione recita: "Pro itala gente contra Hostes bellique desultores militum ductor bello trenvissimu ad urben defendendam Mario Rizzatti". Parole che provocano, per un friulano infarinato di storia, l’incontro con la nostra anima testarda di cui Rizzatti, con i fatti fu espressione. Mario Rizzatti nacque, sesto di sei maschi e due femmine nella bassa, a Fiumicello, il 30 gennaio 1892. "Mariut", come lo chiamava la madre, terminate le scuole elementari si rifiutò di continuare gli studi volendo seguire il mestiere di contadino come il padre. Invece fu spedito alle magistrali di Capodistria - Fiumicello allora era parte dell’Austria-Ungheria - dove nel 1911 ne usci con il diploma di maestro. Lo stesso anno iniziò l’insegnamento a Muscoli, presso Cervignano. Per non pesare sul bilancio della famiglia, prese in affitto una stanza e consumava i pasti alla locanda "Alla Corona Ferrea". Pranzava solo, in tutta fretta. Beveva solo acqua zuccherata, ed era di modi spicci. La locanda era ritrovo degli impiegati di Cervignano.
    Sola, fra tanti maschi galanti, c’era anche l’addetta postale Federica Comelli von Stuckenfeld, austriaca di Trieste. Federica si sentì attratta dal quel maestro dai capelli rossi e dal naso schiacciato - ricordi dei giochi d’infanzia - che gli altri avventori deridevano raccontando d’averlo sentito declamare poesie nella sua stanza, visto andare a caccia di rane con la lanterna, intrattenersi pari a pari con gli scolari... Mario e Federica si ritrovarono gusti in comune: amavano Puccini e Verdi, la vita naturale e i bambini... Il 20 luglio 1914 fu arruolato nell’Imperial esercito e mandato a Lubiana. Il 26 luglio scoppiò il conflitto contro la Serbia. Mario non volle andare in Galizia a combattere una guerra non "sua". Con l’aiuto del fratello Giuseppe, noto irredentista di Jalmicco morto deportato a Stara Gradiska, sfuggendo ai gendarmi, si rifugiò a Palmanova. Successivamente raggiunse Venezia dove condivise speranze e domicilio con altri esuli giuliano-dalmati fra cui Nazario Sauro. Alla sua Federica scriveva che presto le terre irredenti sarebbero state italiane...
    Il 24 maggio 1915 l’Italia entrò in guerra contro gli imperi centrali. Rizzatti, il 25 maggio si arruolò volontario in Udine nel 2° RGT fanteria, culla dei volontari giuliani. Ogni contatto epistolare Mario-Federica cessò. A fine giugno era in linea sul Podgora. Per aver criticato l’assurda tattica degli assalti frontali dell’alto comando di Cadorna fu buttato fuori dalla scuola allievi ufficiali di Cormons. Però, grazie alla disperata necessità d’ufficiali avvertita dal Regio Esercito, nel ‘17 Mario fu nominato sottotenente. Divenne poi comandante di plotone e di compagnia con il grado di capitano. Terminate le ostilità, fu nominato Commissario Prefettizio di Fiumicello. Erano gli anni del "biennio rosso". Rizzatti che addossava tutti i guai d’Italia alla massoneria entrò nel Partito Popolare. Quando i "popolari" adottarono metodi massimalisti si avvicinò al movimento fascista. Il 4 marzo 1921 si dimise da Commissario per protesta "alle malefatte del governo" che, con la requisizione dei cereali, defraudava il lavoro dei contadini a vantaggio della classe operaia cittadina. Il 9 settembre ‘22 si iscrisse al PNF partecipando alla marcia su Roma, poi riprese il posto d’insegnante. Con una circostanziata denuncia al Provveditore agli Studi prese le difese della sua gente contro l’amministrazione italiana che, nei territori ex imperiali, nella costituzione dell’impalcatura scolastica aveva mandato nuovi maestri - in gran parte meridionali - con tali e quali inflessioni dialettali da non essere compresi dagli scolari friulani. Costui era meridionale...
    Abbandonato da tutti, Rizzatti fini sotto processo. Solo per la sua qualifica di volontario e di fascista riuscì a cavarsela con una  sospensione dallo stipendio ed una sanzione pecuniaria. Prese parte attiva alle opere di bonifica della "bassa" e alla costituzione  di colonie per i meno abbienti. Nel ‘29 si mise a costruire la casa "per me e i miei" come sta ancor scritto nell’atrio a  Fiumicello, contando di pagarne i debiti con il reddito dei pescheti ch’egli mise a dimora, antesignano della coltura che ha fatto  la fortuna del suo paese. Ma venne la "quota 90" e fu giocoforza vendere casa e pescheti. Mario si fece trasferire a Milano.  Poi a Roma. Era entusiasta delle opere che il regime aveva realizzato nella capitale, ma per il resto era critico. Verso Mussolini  che "non sentiva e non vedeva", la guerra d’Etiopia, il formalismo. Richiamato il 6 settembre ‘39 nel 396° BTG costiero fu  congedato per essere di nuovo arruolato il 3 giugno ‘40 presso il 408° BTG costiero, sempre in Sardegna. Nel marzo ‘42,  nonostante l’età, fece domanda d’ammissione per la scuola parà di Tarquinia. Ammesso, nel giugno ‘43 ritornò in  Sardegna quale maggiore comandante del XII BTG della div. paracadutisti "Nembo". I suoi soldati l’adoravano. L’8  settembre vide Rizzatti scegliere di proseguire la guerra a fianco del vecchio alleato. Ottenuta l’adesione pressoché totale del  XII, telefonò al comandante della "Nembo" Ercole Ronco: "Generale, il mio onore di soldato non mi consente di deporre le  armi in questo modo!" La "Nembo" era tutto un sussulto. Il col. Pietro Tantillo, vice divisionale, il ten. col. Ademaro Invrea  comandante di raggruppamento furono arrestati assieme a ufficiali, sottufficiali e semplici parà con le armi in pugno e  processati. Il X BTG fu disciolto d’autorità e smembrato in altri reparti più fedeli alla corona... Ma Rizzatti, Ronco non voleva  perderlo. Di persona si recò sulla strada di Macomer a fermare il suo ex sottoposto. "Lasciatemi morire per la mia patria" fu la  sua risposta. A Ronco, nell’opera di persuasione, diede il cambio il capo di stato maggiore ten. col. Alberto Bechi Luserna.  Scortato dai carabinieri divisionali, il col Bechi si imbattè a Borore, presso Macomer, in un posto di blocco dell’XII. Tentò con  le buone e con le cattive di passare. Un suo carabiniere abbozzò un tentativo di minaccia con il mitra. Un parà del blocco,  Cosimo, d’istinto sparò una raffica che uccise Bechi ed il carabiniere... Iniziò lo stillicidio di scontri con i badogliani e poi, in  Corsica i maquis degaullisti. A mezzo trimotori Ju. 52 l’XII fu trasportato a Pisa da cui prese poi posizione antisbarco sul  litorale laziale. Il 22 gennaio ‘44 gli alleati sbarcarono ad Anzio. L’11 settembre il BTG "Nembo" inserito nel 1° Corpo Par.  tedesco raggiunse il fronte.
    Nella primavera ‘44, la censura consegnò sul tavolo di Mussolini una lettera di Rizzatti ad una sua amica goriziana. Nella missiva il maggiore se la prendeva con i carrieristi di Salò, i tedeschi, l’entourage del Duce e lo stesso Mussolini definito "Maddalena pentita". Fu chiamato a Gargnano, sede del governo di Salò. Il segretario del Duce, Bortolo Giovanni Dolfin gli mostrò la lettera chiedendogli se la riconoscesse. "Si, è mia" rispose "Non ho nulla da togliere né da aggiungere. Se ho compiuto un reato per aver manifestato ciò che penso, ebbene, sono qui a scontarlo..." Dolfin si trovò spiazzato aspettandosi d’incontrare un uomo contrito. Il maggiore proseguì: "il mio BTG combatte da anni, i morti sono più numerosi dei vivi. Siamo nella sabbia e nel fango privi di tutto. Ci allacciamo le scarpe con lo spago, le giberne con il fil di ferro e spariamo perché non vogliamo che nessuno abbia il diritto di dire che gli italiani sono tutti vigliacchi!..." Dolfin arrivò ad un compromesso: Rizzatti avrebbe inviato una lettera di scuse a Mussolini, dopodiché sarebbe stato ricevuto e debitamente elogiato dal Duce per i suoi meriti. Jodl, Dolfin e Rizzatti impiegarono tutta una notte per trovare una forma accettabile. Alla fine Mario firmò due paginette che lasciavano le cose come stavano. L’indomani Mussolini scorrendo la "non ritrattazione", decise di chiudere l’incidente esclamando: "Questo Rizzatti, cocciuto e testardo è un vero italiano. Uno di quelli che sanno ancora scrivere la storia..."
Mario tornò ad Anzio dove gli alleati avevano rotto la linea tedesca. Alla loro retroguardia c’erano i parà della "Folgore" attestatisi a Castel di Decima. Dopo aver respinto un primo saggio inglese, il 4 giugno i folgorini si trovarono gli Sherman del 46° Royal Tanks RGT unitamente ad altre colonne avanzanti sulla Laurentina incolonnati nella strettoia di Fosso Malfosso. In due grotte, ai lati della via obbligata, era sistemato il comando tattico di Rizzatti. Senza controcarro, la situazione divenne drammatica. Agganciati da due lati i parà rischiavano l’annientamento. Bisognava far qualcosa, subito, per rovesciare il momento tattico. Rizzatti comprese. Seguito dal suo portaordini, il diciottenne Massimo Rava, uscì dal comando, con mitra e bombe a mano si avventò sul carro dì resta. I due furono colpiti dalle raffiche del carro successivo. Ma il gesto diede il là. I parà con il cap. Edoardo Sala partirono al contrattacco e a colpi di panzerfaust inchiodarono la colonna dei tanks. I folgorini poterono così ripiegare combattendo verso l’Urbe dove, alla Magliana e all’EUR furono gli ultimi a contendere la città agli alleati. Il corpo del maggiore Rizzatti fu seppellito alla meglio dinnanzi alle due grotte della tenuta del conte Vaselli, già sede del suo comando. Ad occupazione alleata avvenuta, il locale medico condotto, adducendo motivi sanitari, ne dispose l’esumazione e la cremazione. L’operazione riuscì a metà. Ciò che ne rimase fu inumato in una fossa comune al Verano…
 
 
STORIA DEL SECOLO XX N. 44 Gennaio 1999 (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)

DOMUS