RECENSIONI DI LIBRI SULLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA - 2004

 
    Tema di queste recensioni è la Repubblica Sociale Italiana. Le recensioni, inizialmente riprese soprattutto dal mensile NUOVO FRONTE di Trieste, sono poi state integrate anche con altre di diversa fonte, ivi compresa -talvolta- le presentazioni di copertina. Quando si è potuto abbiamo aggiunto le immagini delle copertine e queste sono state proposte, in attesa di recensione che non abbiamo, anche per libri che a nostro avviso potevano rientrare in questo soggetto.
    Si fa presente che il criterio di scelta è stato molto ampio. Talvolta trattasi anche di libri che trattano solo marginalmentre di RSI  (per esempio: foibe etc.) o di argomenti che, per vicende storiche, in qualche modo sono con la RSI connessi (per esempio: novità importanti anche sul ventennio fascista.
    Si è rinunciato a riportare per ogni libro le notizie da CATALOGO IN RETE OPAC, perchè troppo impegnativo e inattuale col tempo a causa di eventuali nuove acquisizioni da parte delle Biblioteche. Perciò si riporta speso il link al CATALOGO IN RETE OPAC dove facilmente ognuno potrà, se il titolo è presente, trarne le notizie in merito al reperimento sul territorio nazionale e, immettendo nela stringa dedicata al Soggetto le parole "Repubblica Sociale Italiana" si potranno reperire eventuali titoli non presenti nelle nostre recensioni.
ULTERIORI TITOLI SI POSSONO OTTENERE RICERCANDO IN OPAC CON LE PAROLE REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA OPPURE CON LE PAROLE 1943-1945 (O ALTRO) NEL CAMPO "TUTTI I CAMPI". SE SI VOGLIONO I TITOLI COMPLETI USARE LA VARIANTE SUTROS INVECE CHE ISBD. 
    Poichè molti titoli sono sprovvisti di recensione saremo grati al lettore che vorrà collaborare inviandoci eventuale recensione di terzi (completa di fonte) o anche propria recensione accompagnando l'invio con proprio nome o pseudonimo.


 
 
 
 
Teodoro Francesconi IL BATTAGLIONE BERSAGLIERI VOLONTARI "BENITO MUSSOLINI
Marvia Edizioni. 2004
Nesi Sergio, JUNIO VALERIO BORGHESE - UN PRINCIPE, UN COMANDANTE, UN ITALIANO - Con nota introduttiva di Giuseppe Parlato. Biografia ufficiale con l'autorizzazione e la collaborazione del figlio Andrea Scirè Borghese e del nipote Valerio Borghese
- 716 pp. - ill. b/n - ril. - ed. 2004 - Lo Scarabeo Editrice. EUR 37,00
Junio Valerio dei Principi Borghese è stato uno dei personaggi più noti della seconda metà del secolo XX. Discende da una stirpe che risale al 1200. Ufficiale della Marina Militare, famoso sommergibilista, anche legionario nella Guerra Civile Spagnola, divenne leggendario nel corso del conflitto mondiale violando ripetutamente i porti nemici del Mediterraneo
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Junio Valerio dei Principi Borghese è stato uno dei personaggi più noti della seconda metà del secolo XX. Discende da una stirpe che risale al 1200. Ufficiale della Matina Militare, famoso sommergibilista, anche legionario nella Guerra Civile Spagnola, divenne leggendario nel corso del conflitto mondiale violando ripetutamente i porti nemici del Mediterraneo con il sommergibile Sciré, ottenendo la promozione a Capitano di Fregata per merito di guerra, la Medaglia d'Oro al Valore Militare, l'insegna di Cavaliere dell'Ordine Militare di Savoia e la Croce di Ferro di 2a Classe germanica. All'8 settembre 1943, abbandonato senza un ordine dal Re e dal suo diretto comandante, ammiraglio Ajmone di Savoia duca d'Aosta, entrambi in fuga verso il nemico anglo-americano, a La Spezia si trovò ad essere, per il suo altissimo prestigio, il centro catalizzatore della ricostruzione di quella parte della Marina rimasta al nord della linea del fronte. I venti mesi della Repubblica Sociale Italiana videro la sua X Flottiglia M.A.S. operare sia sui fronti marittimi con i mezzi d'assalto, i M.A.S., le M.S., le V.A.S. e i minisommergibili C.B., sia sui fronti terrestri, da Anzio a Nettuno fino ai confini orientali di Gorizia, spingendosi con i propri presidi dell'Istria e delle isole del Quarnaro per difendere l'italianità di quelle terre. Sciolta la X Flottiglia M.A.S. il 26 aprile 1945, la sua incolumità fisica, minacciata di morte da parte partigiana, fu preservata incredibilmente proprio dal C.L.N. Alta Italia prima e dai Servizi Segreti del OSS americana poi, che lo consegnarono alle Autorità italiane a Roma. Incarcerato per quattro anni fra Procida, Forte Boccea e Regina Coeli prima di essere processato, anche dopo il processo e la conseguente liberazione fu oggetto di un’autentica persecuzione politico-giudiziaria che lo costrinse a cercare rifugio in terra di Spagna, ove morì esule nel 1974. La sua salma fu portata clandestinamente in Italia entro una cassa da frutta per disposizione del Governo italiano per motivi di ordine pubblico. I funerali invece si svolsero a Roma in forma pubblica “a furor di popolo” nella Basilica Vaticana di Santa Maria Maggiore. Sergio Nesi ha voluto racchiudere la storia del Principe Borghese in cinque parti, di cui la prima riservata all’illustrazione della Casata, ognuna relativa ad un preciso periodo della sua vita.
Gianni Oliva LE TRE ITALIE
Mondadori 2004. 112 p. ; 20 cm
 
 
Accame G., Coli D., De Giovanni B., Fontana S., Romano S. STATO ETICO E MANGANELLO. Gentile a sessant'anni dalla morte. Atti Convegno Salò
2004 del CSDRSI Marsilio 2004 
Fabrizio Bernini LA “SICHERAI” in Oltrepò Pavese 
2004. Prezzo: € 28,00 Dati p. 208 Formato cm. 17 x 24 cm. Copertina a colori illustrazioni in B/N Edizioni: GIANNI IUCULANO EDITORE Collana SAGGISTICA
Il Sicherheits Abteilung. Un reparto di polizia nel turbine della guerra civile (1943-1945). Ripercorrere la storia del Sicherheits significa ripercorrere, come fa l’autore, con taglio però revisionista, la storia non solo del Fascismo Repubblicano in Oltrepò, ma anche della Resistenza da ricollocarsi, a sessant’anni di distanza nella sua vera dimensione storica. Preziose sono poi le numerose fotografie che corredano il testo e le testimonianze inedite rilasciate all’autore dai protagonisti superstiti. Ne è uscito uno “spaccato” di sicuro interesse che aiuta a meditare sulla più grande tragedia che investì il nostro popolo nella sua storia, la guerra civile.
IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA Crimini dei vincitori 
160 pagine Interamente illustrato in bianco e nero di Ernesto Zucconi Euro 25,00 Novantico Editore 2004
  
 
Sergio Bonifazi 25 LUGLIO 1943: IL CASO È CHIUSO
Prezzo: € 13,00, Dati 64 p. Formato cm. 17x24, Anno 2004 Editore: Grafica MA.RO Editrice 
Non è stato ancora scritto un romanzo che non annoierebbe nessuno: quello sulla storia delle interpretazioni del 25 luglio 1943. Si comincia con la più romanzesca: il fascismo cade in seguito a un Ordine del Giorno che mette in minoranza Mussolini durante la seduta del Gran Consiglio del 25 luglio 1943. La galoppata continua nei decenni successivi: si richiedono interviste a tutti i “congiurati” che danno interpretazioni differenti… 
Ilario Sbrilli LA FOIBA DELLA VAL D’ORCIA. 8 aprile 1944
Prezzo: € 18,00 Dati 148 p. Formato cm. 17x24 Anno 2004 Editore: Grafica MA.RO Editrice 
“L’assassinio di mio padre e di altri quattro”, l’8 aprile 1944, per opera di partigiani che operavano nel Monte Cetona, in provincia di Siena. I cadaveri furono gettati in una profonda voragine, una specie di foiba. Dopo il ritrovamento dei cadaveri, seguì il processo, conclusosi con la condanna degli imputati. 
Renzo Portalupi DALLA GERMANIA ALLE ALPI APUANE: 1944/1945, II Compagnia Bgt. Intra Div. Alpina Monterosa
a cura di Davide Del Giudice Pubblicazione: Milano : Ritter, 2004 Codice identificativo: IT\ICCU\LUA\0111452
Dalla Germania alle Alpi Apuane. 11ª Compagnia, Btg. Intra, Div. Alpina Monterosa - Renzo Portalupi - € 20,00 L’Autore (1925-2002) è stato tra i fondatori dell’Associazione della Divisione Alpina Monterosa della quale divenne poi segretario e direttore . Questo libro, sapientemente curato da Davide Del Giudice, raccoglie le sue memorie del periodo 1944-45, quando combatte nei ranghi del Battaglione Intra sul fronte della Garfagnana. 192 pagine - 50 fotografie b/n - formato 15 x 21 cm 
 
 
Antonio Liazza (a cura di) QUELLI DEL MAMELI: bersaglieri della Repubblica sociale italiana: cronache di un reparto di giovani volontari che dopo la resa dell'8 settembre 1943 continuarono a combattere contro americani, inglesi, polacchi, indiani e altri liberatori.
Bologna : Lo Scarabeo, 2004 
Tra breve disponibile in edizione pdf CYBERSAMIZDAT
Aldo Grandi GLI EROI DI MUSSOLINI: Niccolo Giani e la Scuola di mistica fascista
Milano : BUR, 2004 
Descrizione della casa editrice
La loro esistenza si esprimeva in un'unica parola: servire. Servire Mussolini e la rivoluzione fascista. A costo di morire. Ma chi erano questi sacerdoti del regime e perché avevano una fede così assoluta nel duce? In questo volume l'autore ricostruisce la storia di Niccolò Giani, Guido Pallotta, Berto Ricci e dei tanti altri che in quegli anni credettero, obbedirono e combatterono in nome del fascismo. Giani fu l'ideatore e il direttore della Scuola di Mistica fascista, il club più esclusivo, aperto soltanto ai 'missionari del fascismo', ragazzi che, cresciuti nel Ventennio, si offrivano volontari per la guerra, come lo stesso Giani che abbandonò i panni di docente universitario per andare a combattere in Africa settentrionale e sul fronte greco-albanese dove morì nel 1941, a soli 32 anni. Il volume si basa su una ricca documentazione, mai consultata in precedenza, di diari e carteggi privati ed è completato da un'Appendice di documenti inediti, fra i quali il diario dal fronte di Giani e le lettere dalla guerra dei giovani volontari di Mistica. 
Fabrizio Bernini IL GIUSTIZIERE DI DONGO WALTER AUDISIO: il colonello Valerio 
2004. Prezzo: € 19,00 Dati p. 256 Formato cm. 17 x 24 cm. Copertina a colori illustrazioni in B/N Edizioni: GIANNI IUCULANO EDITORE Collana SAGGISTICA ISBN 8870726630   
Chi fu il vero uccisore di Mussolini? Ripercorrendo la storia di Walter Audisio, meglio conosciuto come il colonnello Valerio il presunto giustiziere, l'autore Fabrizio Bernini getta nuove luci ed ombre sulla fucilazione del secolo, quella del Duce e di Claretta Petacci.  Autore.    Fabrizio Bernini, pubblicista, si dedica ormai da decenni alla storia del Fascismo, della Resistenza ed in generale dell’età contemporanea. Sulla vicenda di Dongo, in questo saggio, ripropone i risultati di ricerche durate anni, collocandole nel contesto della prima biografia di Walter Audisio data alle stampe a trent’anni dalla morte di questo enigmatico personaggio.
 
 
Sergio Romano UN FILOSOFO AL POTERE NEGLI ANNI DEL REGIME
Rizzoli 2004. € 19,00
Giovanni Gentile, filosofo tra i maggiori d'Europa, aderì al fascismo, varò come Ministro della Pubblica istruzione un'importante riforma della scuola superiore, fu presidente e ispiratore dell'Enciclopedia Italiana e direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa. Dopo il 25 luglio 1943, tentò di promuovere una sorta di solidarietà nazionale, ma scelse di aderire alla Repubblica Sociale. Fu ucciso a Firenze il 14 aprile 1944 in un agguato condannato dal CNL, rivendicato dal Partito comunista e attorno al quale aleggia ancora il mistero. Il volume illustra il pensiero di Gentile e il suo ruolo decisivo nella cultura italiana del Ventennio, ma anche l'influenza esercitata nel dopoguerra sugli intellettuali e nel mondo politico. 
Marco Coslovich NEMICI PER LA PELLE Trieste terra di confine
Mursia. 2004
«Nemici per la pelle» costretti a convivere nello stesso quartiere: è la realtà degli uomini e delle donne che in questo libro raccontano la loro vita in una città di confine durante la Seconda guerra mondiale. L'incrocio di storie di testimoni appartenenti a gruppi politici, etnici e sociali opposti rievoca vicende del nostro recente passato senza pregiudizi fino al dopoguerra giuliano con il governo angloamericano. L'Autore raccoglie interviste, diari, testimonianze in un'opera storica corale che nasce nell'ambito dell'attività culturale promossa dal Teatro La Contrada, fondato a Trieste nel 1976 e divenuto «teatro stabile di interesse pubblico» nel 1989. 
CARI COMPAGNI
2004. Testo integrale in edizione cybersamizdat disponibile in CARI COMPAGNI
Attraverso la proposta di documenti e memoria di alcuni fatti viene raccontata la vicenda della SOCIALIZZAZIONE durante la RSI. IEmerge quel che poteva essere il coronamento della Rivoluzione Fascista, dopo che le vicende del 25 Luglio, dopo la versione del ventennio, in cui Mussolini aveva subito il freno dei centri conservatori italiani. Il lavoro dell'infaticabile MInistro Tarchi e l'entusiastica campagna di Bombacci (fondatore nel 19  del Partito Comunista d'Italia, prima oppositore di Mussolini e poi, consigliere di Lenin e trait d'union dell'Italia di Mussolini con la Russia sovietica, riconosciuta subito dall'Italia fascista.  
L'introduzione della Socializzazione, idea alternativa al capitalismo privato e al capitalismo di Stato, avvenuta agli inizi del 1945, viene cinicamente e cancellata dai "vincitori" della cosiddetta Resistenza. Riportando l'Italia nell'alvo dell'Occidente capitalista 
 
 
 
A cura di Enrico Frattini e Andrea Lombardi SOTTO TRE BANDIERE Una vita per la Patria 1941-1946
Le memorie di Giorgio Farotti, Sottotenente in s.p.e. nel Regio Esercito, Guardiamarina nella Decima MAS, Generale nell'Esercito italiano
Andrea Lombardi   Presidente Associazione Culturale e di Storia Vivente "ITALIA" Via Onorato 9/18 16144 Genova Italia   Tel. 010 824086 Tel.Cell. 348 6708340 Website  www.italialhg.com E-Mail frundsberg@libero.it  
Il testo è integrato da 100 foto del Raggruppamento Alpino Carnevalis, del Btg. Barbarigo e di altre unità della Decima MAS, la maggior parte inedite e molte di proprietà dell'autore, e da appendici con testimonianze di Reduci della Decima MAS e documenti.   Parte del ricavato della vendita del libro sarà donato al "Campo della Memoria" dei Caduti della Decima MAS.   180 pagine, 100 foto in b/n, 10 disegni, f.to 17x24, 2005, Associazione ITALIA-Effepi Edizioni, € 19,00. Il libro è edito dall'Ass. Culturale e di Storia Vivente ITALIA - Effepi, tel. 010 6423334, effepiedizioni@hotmail.com.
    L'autore ha prestato servizio come Sottotenente in s.p.e. nel Regio Esercito e nel Raggruppamento Alpino Carnevalis, e come Guardiamarina nella Decima MAS, dove ricoprì gli incarichi di Comandante della Compagnia Mitraglieri del Battaglione Barbarigo e successivamente di Ufficiale alle Operazioni della stessa unità.  Queste memorie, toccanti ma scritte con grande rigore storico-militare, comprendono capitoli sull'addestramento nelle Scuole Ufficiali del REI nel 1941-1942, sulle operazioni nel Goriziano prima e dopo l'otto settembre 1943, e sul periodo nella Decima MAS nel 1944-1945, con interessanti considerazioni sulle tattiche adottate dai Reparti della Decima MAS a Chiapovano, sul San Gabriele, a Tarnova e sul fronte del Senio.
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Le memorie di Giorgio Farotti, Sottotenente in s.p.e. nel Regio Esercito, Guardiamarina nella Decima MAS, Generale nell'Esercito italiano.
L'autore ha prestato servizio come Sottotenente in s.p.e. nel Regio Esercito e nel Raggruppamento Alpino Carnevalis, e come Guardiamarina nella Decima MAS, dove ricoprì gli incarichi di Comandante della Compagnia Mitraglieri del Battaglione Barbarigo e successivamente di Ufficiale alle Operazioni della stessa unità.
Queste memorie, toccanti ma scritte con grande rigore storico-militare, comprendono capitoli sull'addestramento nelle Scuole Ufficiali del REI nel 1941-1942, sulle operazioni nel Goriziano prima e dopo l'otto settembre 1943, e sul periodo nella Decima MAS nel 1944-1945, con interessanti considerazioni sulle tattiche adottate dai Reparti della Decima MAS a Chiapovano, sul San Gabriele, a Tarnova e sul fronte del Senio.
 Il testo è integrato da 100 foto del Raggruppamento Alpino Carnevalis, del Btg. Barbarigo e di altre unità della Decima MAS, la maggior parte inedite e molte di proprietà dell'autore, e da appendici con testimonianze di Reduci della Decima MAS e documenti.
Parte del ricavato della vendita del libro sarà donato al "Campo della Memoria" dei Caduti della Decima MAS.
180 pagine, 100 foto in b/n, 10 disegni, f.to 17x24, € 19,00 
N.H. Giorgio Farotti (1921), Ufficiale in s.p.e. dal 1943 al 1986. Combattente nel Goriziano e sul fronte Sud dal 1943 al 1945, è decorato di Croce di Guerra al Valor Militare. Ha frequentato la Regia Accademia di Fanteria e di Cavalleria di 0Modena, le Scuole di Applicazione di Parma e Torino e numerosi Corsi di alta specializzazione presso vari Centri Studi ed Esperienze dell’Esercito.
Nel 1965 ha conseguito la qualifica di Psicologo Militare rilasciatagli dal C.N.R. dell’Università di Roma e per tre lustri ha fatto parte, divenendone Presidente, della Commissione mobile per gli accertamenti d’idoneità psico-attitudinale dei concorrenti all’ammissione alle Accademie, Scuole e Collegi Militari.
Nell’arco della sua lunga carriera, terminata con il grado di Maggior Generale, ha comandato tutte le unità operative corrispondenti ai vari gradi rivestiti, ottenendo molteplici encomi dalle S.A. e essendo insignito dell’onorificenza di Commendatore dell’Ordine del Merito della Repubblica Italiana.
Attualmente è Presidente dell’A.N.U.P.S.A. per la regione Liguria e dell’Associazione "Campo della Memoria", con la quale è riuscito a far costruire il Cimitero di Guerra dei caduti del Btg. Barbarigo ad Anzio/Nettuno. I reduci della IV Compagnia del Barbarigo lo hanno nominato Marò Honoris Causa con la motivazione: "con profonda stima ed affetto, per le sue doti eccezionali e per la dedizione ai nostri ideali in pace ed in guerra".
Ciriacono Gianfranco LE STRAGI DIMENTICATE. Gli eccidi americani di Biscari e Piano Stella 
Cdb Editore, 2004, 96 pagine, € 16,00. Per avere il testo: gianfranco.ciriacono@tin.it oppure telefonare al 339 5891869.
I Massacri dimenticati dalla Storia. Finalmente viene sfatata un'altra favola. Le forze americane che nel luglio 1943 sbarcarono in Sicilia, nell'operazione Husky, si macchiarono di crimini chiaramente banditi dalle Convenzioni di Ginevra: fucilarono a sangue freddo dei prigionieri, militari e civili, eseguendo un ordine diretto del comandante, il generale George Patton.
Dopo tanti anni di silenzio e di omertà a tutti i livelli, politico-militari prima e storici poi, la verità viene fuori. I morti e la resistenza, in Sicilia, ci sono stati, le truppe americane non furono in ogni caso accolte come dei liberatori di fronte ai quali i civili si affacciavano alle finestre e i militari si arrendevano ai "fratelli statunitensi". La situazione fu ben più drammatica, fu vera guerra e non una barzelletta. I diari del generale Patton testimoniano la durezza degli ordini e, in alcuni casi, la violazione delle convenzioni internazionali. Se n'è accorto anche il Corriere della Sera, con un ampio reportage diviso in due puntate, pubblicato il 23 ed 24 giugno; Gianluca Di Feo cita i terribili episodi avvenuti a Biscari, a Piano Stella e in altre località siciliane. Durante le inchieste aperte in gran segreto al tempo dei fatti, gli autori dei massacri dissero di aver ubbidito ad un ordine del generale Patton che comandava in buona sintesi di non fare prigionieri, in nessun caso. Ordini presi alla lettera, con tragiche conseguenze: i suoi discorsi invitavano a «uccidere i nemici che alzano le mani a meno di 200 metri». Parole che si commentano da sole... I massacri vennero insabbiati, all'epoca, per non compromettere lo sforzo bellico e per evitare che la popolazione si inferocisse e attaccasse i "liberatori". In seguito si preferà "dimenticarli", per evitare che la pubblicazione di simili notizie potesse avere effetti devastanti sull'opinione pubblica mondiale.
La pubblicistica relativa ai sanguinosi fatti siciliani non è molto ampia; un testo pregevole e completo: Le stragi dimenticate, gli eccidi americani di Biscari e Piano Stella, di Gianfranco Ciriacono, parente di uno dei prigionieri sopravvissuti ai massacri statunitensi. Testimonianze orali raccolte pazientemente, fonti iconografiche preziose, un lavoro certosino che vi consigliamo di premiare leggendolo.
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Aproposito del libro ecco quanto ci ha trascritto il cyberamanuense Mauro F. 
LUGLIO 1943: CRIMINI DI GUERRA AMERICANI IN SICILIA . Nel marzo 1944 giunse a Londra un ispettore del dipartimento della Guerra per condurre un’inchiesta a seguito del comportamento delle truppe americane sbarcate in Sicilia agli ordini del generale George Patton. Dal libro "LA GUERRA TRA I GENERALI" di DAVID IRVING – Mondadori (I edizione giugno 1981) contenente brani da "The Patton Papers 1940-45" di Martin Blumenson – Houghton Mifflin Company – 1974.
Patton aveva i pregiudizi tipici dell’aristocrazia californiana nei confronti dei messicani e delle altre minoranze locali. Nel corso delle sue campagne oltremare vi aggiunse l’avversione per gli arabi – "mi fanno lo stesso effetto di un rospo" confessava nel maggio 1943 – e per i siciliani. Diceva ai suoi collaboratori che non riusciva a capire come gli arabi potessero dividere le loro bicocche con gli animali. Arrivato in Sicilia aveva aggiunto che non riusciva a capire come gli animali potessero vivere nei cortili insieme ai siciliani. (pagg. 65-66)
Il generale era accusato di avere ordinato alle sue truppe in Sicilia nel luglio 1943 di non fare prigionieri. Delle uccisioni, come degli incidenti degli schiaffi che sarebbero seguiti un mese dopo, si parlava in tutta la Sicilia. Non si trattava affatto di atrocità isolate. Un corrispondente di guerra britannico, Alexander Clifford, aveva visto un soldato della 45ma divisione falciare con una mitragliatrice pesante un camion di prigionieri tedeschi via via che scendevano sulla pista dell’aeroporto di Comiso, uccidendoli tutti tranne due o tre. Poi aveva visto uccidere nello stesso modo 60 prigionieri italiani. Clark Lee, un corrispondente di guerra americano, riferiva di altri incidenti. Presso la stessa divisione si erano avute altre uccisioni: il 14 luglio, presso Gela, il sergente Barry West della compagnia comando aveva ricevuto dai suoi superiori l’ordine di portare nelle retrovie 36 prigionieri, ma vedendo che si faceva buio si era spaventato e li aveva uccisi col mitra sul ciglio della strada; nello stesso giorno, nei pressi dell’aeroporto di Butera, un giovane capitano dell’esercito statunitense, Jerry Compton, aveva snidato 43 franchi tiratori, la maggior parte in regolare uniforme di combattimento, li aveva allineati contro un fienile e li aveva liquidati a raffiche di mitra. Bradley, come comandante di corpo d’armata di Patton, seppe immediatamente di questi atroci incidenti e si affrettò a fare rapporto a Patton sul crimine del capitano, che aveva ucciso i prigionieri "a sangue freddo e per di più in fila: fallo anche più grave", come scriveva Patton citando sarcasticamente Bradley nel suo diario. Patton era propenso a ritenere che si trattasse di un’esagerazione. Ma bisognava evitare che la stampa montasse la faccenda. "Dì al capitano" disse Patton a Bradley "di dichiarare che si trattava di franchi tiratori, o che avevano tentato di fuggire o qualcosa del genere." Spudoratamente annotò nel suo diario la direttiva impartita, aggiungendo: "Comunque sono morti, per cui non ci si può più far nulla." Va dato atto a Bradley di aver approfondito le indagini. Il 9 agosto Bradley comunicò a Patton che i due uomini dovevano essere deferiti alla corte marziale. I due sostennero a loro difesa che Patton aveva dato ordine di uccidere i prigionieri in un discorso pronunciato prima che la loro divisione, la 45ma, si imbarcasse per la Sicilia. Il 30 marzo 1944, otto mesi dopo il crimine, l’ufficiale del dipartimento della Guerra fu introdotto nell’ufficio di Patton a Peover Hall per raccogliere la sua deposizione. Ovviamente non poteva trattarsi di una deposizione sotto giuramento. Egli comunque negò di aver mai dato ordini verbali del genere. Caduta la loro linea di difesa, i due militari furono dichiarati colpevoli ma rimandati per la durata della pena alle loro unità; in seguito morirono in azione. Qualche giorno dopo aver respinto gli addebiti, Patton cenò a Londra con Eisenhower, Bradley e Bedell Smith. Scoprì che Bradley proprio non gli andava giù. "E’ un maneggione che si attacca a tutti gli appigli", annotò Patton in seguito "e li usa a suo vantaggio." Probabilmente era seccato che anche allora fosse uscito dall’episodio dei prigionieri in odore di santità. Eisenhower rimproverò blandamente Patton, dicendogli a conclusione: "George, tu parli troppo." (pagg. 111 – 112)
Marcello Fabbri IL SERGENTE CHE NON POTEVA MORIRE CON IL BATTAGLIONE IVREA DIVISIONE MONTEROSA STORIE E FATTI 1944-45
320 pagine, 22,60 € Lo Scarabeo, Bologna 2004 
La casa editrice Lo Scarabeo di Bologna (www.loscarabeobologna.it), specializzata in temi quali epigrafia greca, bizantinistica e simili, ha una collana dedicata alla memorialistica della Rsi, che ha già prodotto una ventina di titoli, dedicati soprattutto alle vicende della decima Mas. Quest’ultima pubblicazione narra le vicende della guerra civile nell’area compresa tra Liguria e Piemonte meridionale. 
Se i temi e le riflessioni che ne scaturiscono sono già stati affrontati molte volte e non c’è bisogno di riepilogarli, va comunque detto che le memorie di Fabbri presentano un aspetto che rende non solo una segnalazione ma una vera e propria raccomandazione doverosa: l’aspetto narrativo.
Marcello Fabbri, si evince dalla scheda biografica, è rimasto cieco dopo un incidente stradale e ciò «ha fatto maturare nell’autore un’insospettabile sensibilità poetica».
Le definizioni elogiative in quarta di copertina sono ovvie, ma in questo specifico caso ancora non rendono giustizia alla prosa dell’autore. Sappia il lettore che qui si ha a che fare con un grande, grandissimo scrittore, talmente bravo che l’aspetto storico-politico (nonostante sia quello principale nelle intenzioni) passa assolutamente in secondo piano. In altri termini: chi è interessato a questo genere di pubblicazioni, ha trovato un elemento in più. Chi alla RSI fosse disinteressato, ha trovato qui un grande romanziere (autobiografico).
Dalla rivista Millenovecento Anno 4, n. 28 del febbraio 2005
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Le vicende rievocate da Marcello Fabbri in questo bel romanzo "militare" riguardano il 101° Battaglione di complementi "Ivrea" della Divisione Alpina Monterosa, impegnato a salvaguardare dall'offensiva partigiana le linee di comunicazione del fronte della Garfagnana dal luglio 1944 all'aprile del 1945. Una piccola guerra priva di memorabili episodi bellici, fatta di bivacchi all'addiaccio, agguati orditi e più spesso subiti, lunghe marce su e giù per monti e valli fronteggiando l'incombente minaccia dei "ribelli". 
Una storia, sia pur romanzata, vera in episodi, luoghi, personaggi e reparti che conferma come la letteratura sia a volte in grado di far comprendere aspetti trascurati o ignorati dela storia. Mentre gli antagonisti si braccano tendendosi reciproci agguati, la "zona grigia", rappresentata dalla popolazione civile, sembra solo attendere gli esiti del tragico gioco per schierarsi con il vincitore. Gli Alpini invece vivono il dramma di chi, inviato al fronte per combattere un nemico invasore, si trova inspiegabilmente e dolorosamente coinvolto in un tragico conflitto tra compatrioti. Una storia tesa in cui le personali avventure di un sergente, intento come l'eroe di un famoso film di Bergman a giocare una misteriosa partita con la morte, si fondono con le vicende collettive di un'intera generazione travolta dal dramma di una guerra "incivile". 
Marcello Fabbri, classe 1923, fiorentino, laureato in giurisprudenza e funzionario di un Ente Pubblico, è stato soldato in zona di operazioni nell'ultima guerra. Nel dicembre 1970 un colpo di sonno mentre era alla guida dell'auto lo privò della vista e forse un aiuto offerto dall'inconscio per superare il riadattamento ha fatto maturare nell'A. una insospettata sensibilità poetica. Ha partecipato a vari concorsi letterari ottenendo numerosi premi. Prima di questo ha pubblicato due volumi di liriche ed uno di narrativa. Più volte accademico è inserito in molte antologie ed è stato membro di giuria in concorsi letterari. 
 
 
Loris Leonzio C'ERO UNA VOLTA
I mori 2004.
Brunasso Raffaello, CHI HA UCCISO QUEI FASCISTI? URGNANO, 29 APRILE 1945
Mursia. 166 pp. - ill. b/n - brossura - ed. 2004 - Mursia - Testimonianze fra cronaca e storia (1939-1945: Seconda Guerra Mondiale). NUOVO. EUR 13,20   1x1_06186
Il 29 aprile 1945 nove fascisti, o presunti tali, residenti a Urgnano, piccolo paese presso Bergamo, si consegnarono alle autorità provvisorie locali aderendo all'ordine rivolto agli sconfitti della Repubblica Sociale Italiana dal Comitato di Liberazione Nazionale, convinti di non subire rappresaglie. Prelevati da alcuni partigiani e trasferiti alla prefettura di Bergamo, furono caricati su un camion e portati al cimitero monumentale. Qui, ammassati contro un muro, furono uccisi a raffiche di mitra. Questo episodio di storia locale è esemplare di quanto è avvenuto in migliaia di località del Nord Italia alla fine del Secondo conflitto mondiale. L'Autore ricostruisce il clima politico e sociale e gli eventi di quei tragici giorni, attraverso le testimonianze dei pochi sopravvissuti, un'attenta rilettura dei giornali dell'epoca e un'analisi approfondita dei documenti del processo contro ignoti aperto su pressanti richieste delle famiglie degli uccisi. La magistratura chiuse le indagini nel 1952, per l'impossibilità di individuare i colpevoli  
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UN'INCHIESTA SU UNA STRAGE PARTIGIANA CHE NULLA EBBE DI POLITICO
Si sapeva, si è sempre saputo, che un buon numero di trucidati in Italia dopo il 25 aprile 1945 erano persone che non avevano fatto male a una mosca, semplici fascisti un buona fede, e talvolta neppure fascisti, ma magari vicini di casa scomodi, o facoltosi possidenti la cui ricchezza dava fastidio all’invidioso. Questa volta, però, c’è una storia esemplare che mette i brividi. E’ la storia di nove galantuomini di Urgnano, piccolo paese alle porte di Bergamo, caricati su un camion la mattina di domenica 29 aprile 1945, portati in Questura a Bergamo e da qui, approfittando del fatto che il "questore della resistenza" era andato a farsi una mangiata, trascinati davanti al muro del cimitero, massacrati, depredati, sfigurati. La loro storia - che ha veramente dell’incredibile nel porre in rilievo la ferocia bestiale che caratterizzò quelle giornate – ce la racconta Raffaello Brunasso, scrupoloso cronista e storico, che ha appena pubblicato da Mursia "Chi ha ucciso quei fascisti?" (166 pagine, ? 13,20). 
Prima osservazione: a Urgnano non era mai successo niente. Non una rappresaglia di tedeschi né delle Brigate Nere, non un atto di violenza, non una ricerca o una caccia ai disertori. Il merito? Di un personaggio ben voluto da tutti, l’imprenditore agricolo Giuseppe Pilenga, fascista sì, da sempre (oltreché valoro combattente della prima guerra mondiale), ma uomo generoso, di buon cuore, datore di lavoro per moltissimi giovani del paese. Tanto poco aveva da temere che, assieme al fratello Cipriano e a un gruppo di amici che avevano creduto, al pari di lui, a Mussolini e alla RSI, si presentò spontaneamente (si consegnò, si potrebbe dire) ai vincitori, o meglio a coloro che, sulla scia dei vincitori, avevano messo piede nei pubblici uffici: Comune, caserma dei carabinieri eccetera. Meno che in parrocchia. E difatti, nel libro rifulge la figura del parroco, don Vittorio Taramelli, il quale, informato che i fascisti presentatisi spontaneamente venivano strapazzati e malmenati all’interno della caserma (beninteso, piena di presunti partigiani dell’ultima ora, non certo di carabinieri), vi fece irruzione, afferrò per il bavero uno dei miserabili boia di provincia e lo sbatté contro un muro. Il vigliacco non ebbe il fegato di uccidere anche il prete.
E - per dirla tutta - ancora oggi non è possibile affermare, carte alla mano, che gli autori della strage siano stati lui e i suoi complici. Eppure, leggendo questo libro, interamente basato sugli atti giudiziari del tempo, sulle cronache dei giornali dell’epoca, sulle testimonianze, sui ricordi dei sopravvissuti, restano ben pochi dubbi. I Pilenga erano benvoluti da tutta la popolazione per la loro generosità e laboriosità. Ma – scrive Brunasso – nel lontano 1926, un commerciante di vini, uomo violento e brutale, aveva aggredito, nell’osteria che gestiva, un cliente. Allo scopo di mettere a tacere la cosa dovette versare la somma di lire 4000 per beneficenza all’ospedale di Urgnano, del quale era presidente Giuseppe Pilenga. Ciò avvenne per intervento dell’allora segretario del Fascio Luigi Cristini. Ebbene, si dà il fatto che, all’indomani della "liberazione", il vinaio si ritrova capo del CLN di Urgnano e che, subito dopo l’uccisione dei fratelli Pilenga, del Cristini e degli altri sei urgnanesi fascisti, "si reca dai famigliari dei fratelli Pilenga e richiede la restituzione delle 4000 lire sotto minaccia di ulteriori, gravi rappresaglie". 
Ecco poi comparire sulla scena un pregiudicato comune che aveva avuto con Cipriano Pilenga, nel 1938, una violenta lite passando a vie di fatto nei suoi confronti. Questo individuo, alla vigilia del 25 aprile, viene udito dichiarare che, appena fossero sopraggiunti gli Alleati, avrebbe saldato i conti con i Pilenga facendoli uccidere. Alla faccia dei bergamaschi, vien da dire. E poi parlano dei siciliani! Per non dire di un altro dei presunti partigiani assassini che l’aveva a morte con uno dei fascisti poi assassinati "perché quest’ultimo, durante un allarme aereo, lo aveva invitato a spegnere le luci o a chiudere le finestre di casa".
Nell’interesse delle madri, delle vedove e degli orfani, un gruppo di avvocati sostenne che l’eccidio di Urgnano non doveva ricadere tra i reati beneficiati dall’amnistia Togliatti, che metteva in libertà fascisti e partigiani resisi responsabili di crimini commessi per fini politici sino al 18 giugno 1946. I fatti di Urgnano – secondo i legali – non avevano alcuna motivazione politica, ma soltanto motivazioni abiette: interessi, invidie, gelosie, vendette personali. Ciccia. Nella requisitoria del PM (aprile 1952) si legge testualmente che "…non si può non vedere nel gesto sanguinario compiuto dai partigiani di Urgnano il movente politico: erano i partigiani di Urgnano che mettevano a morte, sia pur ferocemente, i loro nemici presunti tali residenti in quella zona".
Allo stesso modo, il G.I. fece proprie le considerazioni allucinanti e contraddittorie ("gesto sanguinario") del PM e, il 12 maggio di quel 1952, emise una sentenza di non doversi procedere che si concludeva con questa frase: "La fucilazione dei nove suddetti individui fu certamente un fatto esagerato perché non avevano ricoperto cariche politiche elevate durante la ex RSI. E solo la frenesia sanguinaria e di vendetta politica che imperava nei giorni susseguenti alla Liberazione può spiegare ma non giustificare la predetta sommaria esecuzione (…) Tuttavia, poiché sono rimasti ignori gli autori del fatto, visti gli articoli eccetera eccetera eccetera, dichiara non doversi procedere per il delitto di cui in rubrica".
Quando avvenne la strage, Italo Pilenga, oggi apprezzato industriale tessile, aveva sette anni. Nella prefazione al bel libro di Brunasso scrive che, tra i nove assassinati, c’erano suo padre, due suoi zii e un cugino. Aggiunge che gli orfani furono ventuno. E parla a nome di tutti. Vale la pena di ascoltarlo, non foss’altro che per la pacatezza, e l’umanità delle sue parole: "Sono passati 59 anni da quel 29 aprile e ormai il tempo ha fatto probabilmente scomparire esecutori e mandanti. Se qualcuno è ancora in vita, se la deve vedere con la propria coscienza, perché la giustizia degli uomini, non solo in questo caso, ha fallito. Io e i miei fratelli, con i 21 orfani di allora, non pensiamo certo di far riaprire il processo, come avvenuto in altri casi per episodi di maggiore o minore crudeltà e vigliaccheria, commessi da persone di vario tipo e ideologia degli opposti schieramenti. Desidero però esprimere il mio profondo disprezzo per chi si ostina ancora oggi a sminuire la gravità di quei tragici fatti che portarono all’uccisione di persone innocenti ed inermi. (…) Concludo con un ideale e affettuoso abbraccio alle migliaia di ragazzi del "’45" che, come me, in quei giorni persero tutto: i sogni dell’infanzia, l’entusiasmo della giovinezza, la sicurezza degli affetti, i loro punti di riferimento dell’avventura umana".
da www.storiainrete.com in rete dal 3 giugno 2004
Vincenzo Caputo LA STORIA NEGATA Insorgenze fasciste
MA.RO 2004
 
 
Daniele Lembo LA RESISTENZA FASCISTA DIETRO LE LINEE ALLEATE -Fascisti e agenti speciali dietro le linee - La "Rete Pignatelli" e la resistenza fascista nell'Italia invasa dagli angloamericani"
Casa Editrice MA.RO. di Copiano (PV) (tel. 0382 968151 -52)  25 €. 2004
Il libro di Daniele Lembo ha come oggetto, come si evince dal titolo, la resistenza fascista agli angloamericani nel Sud Italia invaso.
L'autore, per la redazione del testo, oltre che consultare tutta la bibliografia esistente sull'argomento, si è avvalso delle testimonianze e di memoriali di alcuni di quelli che, considerando gli alleati invasori e non liberatori, continuarono a combatterli anche nell'Italia invasa, venendo per questo arrestati e processati. Il punto di forza del libro è costituito proprio da queste testimonianze che, assieme ad alcuni documenti inediti provenienti dal National Archives di Washington, costituiscono un vero e proprio elemento di novità sull'argomento. Il volume si articola in due parti. 
La prima di queste è destinata all'esame delle attività resistenziali fasciste nelle varie regioni del Sud.
Dopo un capitolo dedicato al "processo degli 88", un famoso procedimento giudiziario che vide alla sbarra 88 giovani, e meno giovani, che intesero opporsi agli invasori Alleati, Lembo illustra al lettore quali furono, in vista dell'invasione delle regioni meridionali, i progetti militari per le operazioni di stay behind.
Nell'ambito di tali progetti vengono inclusi quelli approntati dal Regio Esercito e dalla Regia Marina, nonché dal P.N.F. che, prevedendo l'invasione della Penisola, costituì la "Guardia ai Labari." 
Dopodiché, viene considerata la resistenza clandestina in Sicilia fino al settembre 1943 - e da tale periodo alla fine della guerra - e il fascismo clandestino in Sardegna. Oltre ai moti dei "non si parte", ovvero le manifestazioni popolari, spesso violente, di coloro i quali si rifiutarono di tornare alle armi per il Regno del Sud, per quanto riguarda la Sicilia vengono trattate le repubbliche di Palazzo Adriano, Piana degli Albanesi e Comiso. Furono queste vere e proprie repubbliche indipendenti che nacquero dalla ribellione popolare al Regno del Sud. Ci fu bisogno dell'intervento del Regio Esercito e dell'aviazione alleata per normalizzare la situazione in tali località.
Per la Sardegna vengono prese in esame le attività clandestine, l'invio di agenti speciali nell'isola e la propaganda della R.S.I. destinata ai sardi.
Esauriti gli episodi avvenuti nelle isole, si passa ai fatti di Calabria (con numerose interviste ed atti in appendice) e al fascismo clandestino in Campania e in Puglia. Un approfondito esame viene fatto per quanto riguarda l'attività del Principe Valerio Pignatelli di Val Cerchiara e di sua moglie, che furono i propulsori di una rete clandestina fascista operante al Sud. 
La rete Pignatelli, che trasse origine dalla "Gardia ali Labari", fu un'organizzazione articolata ed efficiente con continui e proficui contatti con il territorio della R.S.I..
Pignatelli ed i suoi, in generale, si occuparono di attività informativa fornendo notizie di carattere militare e generale al Nord, ma in casi particolari passarono a vere e proprie azioni militari.
La mancanza di fondi, alla quale il principe sopperì con propri fondi personali, e la stessa cattura del principe e di sua moglie non furono sufficienti a disarticolare la complessa organizzazione che si occupò anche di dare appoggio ad agenti speciali della R.S.I. giunti dal Nord con il compito di meglio organizzare la rete e di fare da consiglieri militari.
La seconda parte del libro è dedicata proprio ai servizi segreti e agli agenti speciali della R.S.I., operanti nei territori invasi.
L'autore, che trattando della resistenza fascista, definisce gli agenti speciali "l'altra faccia della medaglia", dopo aver descritto la nascita e la struttura dei servizi segreti della R.S.I., passa alla disamina dei vari servizi speciali, ovvero quelle organizzazioni della Repubblica del Nord che inviavano agenti informativi e sabotatori oltre le linee.
Vengono esaminati il Gruppo David di Tommaso David (e la sua più nota agente, Carla Costa), ma anche i servizi speciali della X° Flottiglia Mas e dell'Aeronautica Repubblicana. 
Numerosi furono gli agenti speciali che, catturati in missione, furono passati per le armi dagli alleati. Molte di queste catture furono possibili grazie ad un elenco degli agenti speciali italiani, in possesso dei servizi segreti alleati. L'autore, oltre a svelare il mistero dell'origine di questa rubrica, tenta anche di enumerare gli agenti che, catturati, furono processati e fucilati. Purtroppo, questo elenco risulta incompleto. 
Il volume si chiude con un capitolo dedicato al dopoguerra che si collega ad un precedente capitolo dedicato al M.I.F., ovvero il Movimento Italiano Femminile Fede e Famiglia. Il M.I.F. potrebbe essere agevolmente indicato come: "Quello che restò della Rete Pignatelli nel dopoguerra", perché è
proprio nel dopoguerra che il M.I.F. venne allo scoperto. A crearlo fu la principessa Maria Pignatelli che riunì attorno a sé un gruppo di donne per creare un comitato che desse assistenza agli ex appartenenti alla R.S.I.. 
Il Movimento della Pignatelli ebbe dunque uno scopo principalmente assistenziale, occupandosi di fornire ai fascisti, in quegli anni perseguitati, un'assistenza che, più che morale, fu di tipo materiale. La principessa e le altre aderenti al M.I.F. fecero in modo che fosse fornita assistenza legale gratuita ai fascisti incarcerati che, privati del lavoro e spesso anche con i beni sottoposti a sequestro, si ritrovavano nella totale indigenza. 
Il breve capitolo finale sul dopoguerra si chiude con un inquietante interrogativo che riportiamo in conclusione: "E' probabile quindi che, nel dopoguerra, ci sia una continuità tra i servizi segreti americani ed alcuni personaggi o interi settori delle disciolte Forze Armate fasciste repubblicane e ciò nell'ambito "dell\'attenzione americana all\'espansione comunista". 
Se proprio vogliamo far galoppare la fantasia, si potrebbe anche pensare che la Rete Pignatelli, individuata e disciolta nel corso del conflitto, sarà poi riammagliata negli anni successivi. Ma questa è solo un'ipotesi per sostenere la quale non ho nulla in mano se non la mia fantasia che è solita correre veloce. L'ipotesi è però indubbiamente affascinante e mi piace concludere questo libro lasciando al lettore il dubbio.
Augusto  Carletti
INDICE PREMESSA. CAPITOLO 1° - IL PROCESSO DEGLI 88. - Premessa  - Il Processo CAPITOLO 2° - I PROGETTI MILITARI PER LE OPERAZIONI DI STAY BEHIND IN VISTA DELL’INVASIONE E LA COSTITUZIONE DELLE “GUARDIE AI LABARI” DA PARTE DEL P.N.F.  - Il Regio Esercito. - La Regia Marina. - La Guardia ai Labari.  CAPITOLO 3° - IL PIANO MUTI. APPENDICE AL CAPITOLO 3° - IL MEMORIALE DE PASCALE. CAPITOLO 4° - LA RESISTENZA CLANDESTINA IN SICILIA FINO AL SETTEMBRE 1943. CAPITOLO 5° - LA RESISTENZA CLANDESTINA IN SICILIA DAL SETTEMBRE 1943 ALLA FINE DELLA GUERRA. - Il M.U.I. e i moti dei “non si parte”. - Le repubbliche di Palazzo Adriano, Piana degli Albanesi e Comiso. APPENDICE NR.1 AL CAPITOLO 5° - IO C’ERO - INTERVISTA A ARISTIDE GIUSEPPE METTLER  APPENDICE NR. 2 AL CAPITOLO 5° - IO C’ERO – TESTIMONIANZA DI LORENZO PURPARI. CAPITOLO 6° - IL FASCISMO CLANDESTINO IN SARDEGNA. - Padre Usai. - I moti dei “non si parte” in Sardegna. - La propaganda della R.S.I. destinata ai sardi. CAPITOLO 7° - I FATTI DI CALABRIA. APPENDICE NR. 1 AL CAPITOLO 7° - INTERVISTA A NAPOLEONE FIORE MELACRINIS, DETTO LIONELLO.  APPENDICE NR. 2 AL CAPITOLO 7° - IO C’ERO - INTERVISTA A CICCIO (FRANCESCO) FATICA. APPENDICE NR. 3 AL CAPITOLO 7° - IO C’ERO - TESTIMONIANZA DI NICOLA PLASTINA. APPENDICE NR. 4 AL CAPITOLO 7° - Si riporta di seguito lo stralcio di un rapporto del 4 maggio 1944 della Legione Territoriale Dei Carabinieri Reali di Catanzaro - Ufficio Servizio, avente come oggetto: “Scoperta movimento rivoluzionario e di sabotaggio”. APPENDICE NR. 5 AL CAPITOLO 7° - Rapporto Stato Maggiore S.I.M. - N. 10126 di protocollo. Napoli 21 ottobre 1944. Ill.mo Signor Procuratore presso il Tribunale Militare di Napoli. APPENDICE NR. 6 AL CAPITOLO 7° - elenco completo degli imputati in ordine alfabetico trasmesso dal Procuratore Militare del Regno al Tribunale Militare Territoriale di Guerra della Calabria. CAPITOLO 8° - L’ATTIVITÀ DELLA COPPIA PIGNATELLI E IL FASCISMO CLANDESTINO IN CAMPANIA. - L’attivita’ della rete dopo l’arresto del principe - I contatti con la banda Giuliano CAPITOLO 9° - GLI AGENTI DELLA RSI E L’ATTIVITA’ DEI FASCISTI CLANDESTINI. APPENDICE AL CAPITOLO 9° - IO C’ERO - INTERVISTA ALL’ARCH. ANTONIO DE PASCALE. CAPITOLO 10° - LA GUERRA “GUERREGGIATA” DEL FASCISMO CLANDESTINO IN CAMPANIA  APPENDICE AL CAPITOLO 10° - IO C’ERO - INTERVISTA A GISBERTO CAFARO CAPITOLO 11° - IL FASCISMO CLANDESTINO IN PUGLIA CAPITOLO 12 - IL M.I.F.
PARTE SECONDA L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA – I SERVIZI SPECIALI DELLA R.S.I. CAPITOLO 12° - GLI AGENTI DEI SERVIZI SPECIALI DELLA R.S.I. OPERANTI DIETRO LE LINEE ANGLOAMERICANE NELL’ITALIA INVASA. CAPITOLO 13°- I SERVIZI SEGRETI DELLA RSI - L’antefatto - i servizi segreti fino all’8 settembre 1943 - Gli altri servizi segreti  CAPITOLO 14° - I SERVIZI SPECIALI – IL GRUPPO DAVID CAPITOLO 15° - TOMMASO DAVID e CARLA COSTA CAPITOLO 16°- I SERVIZI SPECIALI DELLA X° FLOTTIGLIA MAS CAPITOLO 17° -L’AERONAUTICA REPUBBLICANA E I SUOI AGENTI SPECIALI  CAPITOLO 17°- LA RUBRICA INTESTATA “ENEMY AGENTS” CAPITOLO 18°- GLI AGENTI SPECIALI FUCILATI DAGLI ALLEATI CAPITOLO 19°- IL DOPOGUERRA  
Giacomo De Marzi I CANTI DEL FASCISMO
2004. FRATELLI FRILLI EDITORI Via Priaruggia 31/1 - 16148 Genova tel 010.3074224   -   fax 010.3772845 www.frillieditori.com   info@frillieditori.com
La raccolta più completa di canti del fascismo e di tutte le loro varianti. Nel proporre questa raccolta si è inteso evidenziare come in questi canti sia evidente l'intento “propedeutico” da parte del regime nei confronti del popolo italiano, visto come un’entità da plasmare secondo un’etica rigidamente fascista. Inni, marce e canti, infatti, rivestirono un’importanza vitale poiché illustrando le prodezze dei marciatori della prima ora, la gloria del riconquistato impero e la necessità e la bellezza della battaglia, contribuirono a garantire al regime quel consenso tanto cercato.
In ogni caso, per il regime fascista, il vero canto “etico” non fu quello imperniato sul dopoguerra, bensì quello teso a mostrare al mondo sia il nuovo cittadino italico ormai trasformatosi, al tempo del duce, in fiero guerriero, sia l’intima unione della grandezza dell’antica Roma con il fascismo rinnovato e rinnovatore.
Nel canzoniere fascista ci furono tutti e un po’ di tutto: camicie nere e balilla, manganellatori e manganellati, eroi e martiri, quarte sponde e colli fatali, posti al sole e mari nostri, soldati e studenti, madri e sorelle, operai e legionari, sommergibili e carri armati e quant’altro; il regime volle canti eroici, perché in essi vide – come nel cinema – secondo la nota locuzione mussoliniana, «l’arma più forte» e gli autori, da Blanc a Ruccione, da Spetrino a Pellegrino, da Arconi a Filippini, offrirono agli italiani una grande messe di canti. Giacomo De marzi è docente universitario di Storia Moderna. Ha pubblicato: Considerazioni sulla teoria della storiografia (Cassino 1978); Adolfo Omodeo e la storiografia della Restaurazione francese (Roma 1982); L’opera di Adolfo Omodeo nella storiografia italiana (Cassino 1983). Per i tipi della QuattroVenti di Urbino ha pubblicato: Storici e teocratici. Maistre-Thierry-Lamennais-Thiers (Urbino 1987); Adolfo Omodeo: itinerario di uno storico (Urbino 1988); ha curato la pubblicazione del Diario di guerra. 1917-1918 di E. Tomei (Urbino 1989); Introduzione alla ricerca storica (Urbino 1993); "I monumenti e la memoria storica", in La memoria storica tra parola e immagine (Premio Nazionale di Cultura “Frontino - Montefeltro” ed. 1996); Piero Gobetti e Benedetto Croce (Urbino 1996). Collabora con varie riviste storiche nazionali.
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Premessa (Estratti dal libro: Fratelli Frilli Editori ne autorizza, previa citazione della fonte, la pubblicazione)  Gli italiani, si sa, sono maestri nel bel canto e nell’arte di esporre in musica ed in forma avvincente la   narrazione degli avvenimenti. Con questo lavoro ho inteso offrire una prospettiva della storia d’Italia sotto il   particolare angolo visuale dei canti che ebbero peso notevole nella formazione del sentimento nazionale   durante gli anni della dittatura. Non è stato certo agevole affrontare l’argomento, dopo le manipolazioni, le   rivisitazioni, le “revisioni” e le esaltazioni che da qualche tempo il fascismo è venuto subendo; ho cercato di   individuare le “figure dominanti” (retoriche e reali), sulle quali confluirono le sollecitazioni del regime.   Neanche è stato agevole tentare una conciliazione tra l’aspirazione ad una concreta fedeltà storica e gli   “allettamenti” della critica letteraria e musicale; ho cercato, in ogni modo, di evidenziare contraddizioni, luoghi   comuni, condizionamenti, sovrapposizioni degli archetipi, ambizioni evocative, ma anche cadenze liriche,   momenti realistici e, laddove presenti, artistici: la difficoltà reale è stata l’ascolto dei canti e dei racconti di   alcuni anziani reduci, in cui le vicende ed i personaggi hanno spesso corso il rischio di diventare sfuggenti ed   approssimativi.   Ho seguito un duplice filone: descrittivo l’uno, che ha teso a rappresentare l’aspetto etico-politico fascista,   scevro, però – per quanto possibile – da ogni intento facilmente denigratorio; analitico l’altro, che ha   percorso invece le evoluzioni canore, poetiche e letterarie del regime, per scovare una realtà sociale, così   lontana da quella odierna. Laddove mi sono annoiato, stupito o interessato, mi sono permesso il lusso del   giudizio, anche se con voluta sommarietà. Nell’analisi, senza un ordine particolare, sono andato dietro ad   interessi del momento e personali. Si tenga, poi, sempre presente l’avvertimento di Ferruccio Parri: «Vale,   per tutti i canti di guerra effettivamente cantati, la considerazione, ovvia, ma essenziale, che il ritmo, il tono, la   cantilena sono l’elemento primo di giudizio. Che cosa resta di un canto alpino non udito da un coro   vigoroso?» e quanto scrisse Gramsci: «Ciò che contraddistingue il canto popolare, nel quadro di una   nazione e della sua cultura, non è il fatto artistico, né l’origine storica, ma il suo modo di concepire il mondo e   la vita in contrasto con la società ufficiale».
 Nella stesura di questo saggio ho fatto spesso riferimento a SERGIO LIBEROVICI, a A. VIRGILIO SAVONA   e a MICHELE L. STRANIERO: le loro ricerche – e non solo quelle riguardanti il periodo del “ventennio” –   sono riuscite e riescono, con una mano felice che non finirà presto di stupirci, a ritrovare, a capire e ad   illustrare un lungo iter musicale in tutta la sua complessità e in tutta la sua bellezza... Quella di molti canti   popolari italiani è una bellezza, sotto tanti aspetti, ardua e misteriosa quanto più appare semplice e quasi   casalinga ed i ricercatori ne hanno riscoperto e ne hanno fatto sentire l’intima essenza: soltanto chi ha   sentito, compreso e cantato la Resistenza ed ogni forma di protesta sociale e politica anzitutto come un fatto   di coscienza, come scelta di quella che vedeva quale unica via della giustizia, poteva cogliere il sentimento   che è alla radice di certa musica popolare. È un atteggiamento critico nuovo, tutto volto ad indagare con   umiltà le gesta degli umili, mettendo da parte pregiudizi estetici e puntigli metodologici: le notissime e   numerose raccolte di canti pubblicate da questi autori sono il frutto prezioso di tale indagine e valgono, per   mole e per significato, interi libri, perché la lunga dimestichezza con la poesia del popolo e la profonda   conoscenza dell’ambiente sociale, storico e politico, in cui il popolo stesso crebbe e si formò, hanno dato al   lavoro dei critici una grande forza di penetrazione.
 Un riferimento particolare anche a Fonografo italiano, raccolta di vecchie incisioni scelte e presentate da   PAQUITO DEL BOSCO, collezione che rappresenta «il frutto di lunghe e meticolose ricerche che hanno   consentito di recuperare la maggior parte del materiale sonoro inciso in Italia dall’inizio del secolo al 1940»,   diretta da UGO GREGORETTI e pubblicata tra il 1978 e il 1983. La sottile e simpatica penetrazione del   pensiero altrui, il disegno chiaro e sicuro d’esposizione, che sono doti caratteristiche dei curatori, erano ben   necessarie ad un’impresa che mirava a fornire, nelle sue linee fondamentali e nelle sue sintesi più   caratteristiche, uno strumento utilissimo per la «conoscenza del costume italiano dagli anni della Belle   Epoque a quelli del fascismo guerresco», senza irrigidirne la struttura. Si trattava insomma di superare nel   tempo stesso una doppia difficoltà: dare evidenza, in una scelta forzatamente breve (considerata   l’impossibilità di riprodurre le diverse migliaia di dischi, sono state selezionate circa seicento incisioni),   all’integrità ed all’originalità dei vari momenti della canzone italiana e connetterla, d’altra parte, nel processo   generale della storia d’Italia della prima metà del ventesimo secolo. L’uno e l’altro fine sono stati   perfettamente raggiunti. Si veda anche la pregevole ed utilissima nuova edizione (N. 50 CD con fascicoli   acclusi) del 1997.  Debbo poi alla competenza ed alla disponibilità del personale della Discoteca di Stato ricchezza   d’informazioni, chiarezza di consigli e concretezza d’aiuti.
 Non ho analizzato – mi riprometto di farlo in un secondo lavoro – i canti e gli inni della REPUBBLICA DI   SALÒ, come Marcia della R.S.I., Inno della X MAS, Inno della “Muti”, Brigate Nere, Le donne non ci   vogliono più bene, Ausiliarie, Hanno ammazzato Ettore Muti ed altri ancora, noti e meno noti, specie quelli   che rientravano nei vecchi schemi del canzoniere fascista. A partire dall’8 settembre 1943 non era più il caso   di parlare di veri canti fascisti; esistevano quasi esclusivamente parodie e rifacimenti. Mentre nel nord i   “repubblichini” cantavano Le donne non ci vogliono più bene, nel tentativo di ridare linfa ad un albero   irrimediabilmente essiccato, nel resto d’Italia cominciava a fischiare il vento e ad urlare la bufera…Giacomo De Marzi
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Le prime pagine del saggio introduttivo  (Estratti dal libro: Fratelli Frilli Editori ne autorizza, previa citazione della fonte, la pubblicazione)  Il fascismo fu un movimento politico fondato da Benito Mussolini il 23 marzo 1919 a Milano, in piazza San Sepolcro; si trasformò in partito nel 1921; conquistò il potere nel 1922 e lo mantenne fino al 25 luglio del 1943. Il fascismo non si dette subito una sistemazione ideologica, mirò anzi a porsi come “antipartitico” ed “antidogmatico”; solo più tardi, a potere consolidato, si darà una dottrina. Agli inizi preferì agire accortamente sul terreno dell’azione politica e farsi interprete dei numerosi motivi di malcontento presenti drammaticamente nel dopoguerra. Il paese era deluso e sfiduciato: il trattato di Versailles, si diceva, aveva «mutilato la Vittoria», non riconoscendo le aspirazioni italiane. Di fronte all’aperta crisi dello stato liberale, l’alta borghesia, gli industriali del nord e gli agrari emiliani preferirono far tutelare i propri interessi dalle squadre d’azione fasciste che attuarono, in tal modo, una controrivoluzione preventiva. Sotto la tacita protezione dello Stato, il fascismo, alla fine del 1920, entrò in piena ascesa e le elezioni del maggio 1921 gli diedero la prima consacrazione ufficiale: trenta deputati fascisti, guidati da Mussolini, entrarono in Parlamento.
Ma dal Patto di pacificazione con i socialisti, del 1921, il fascismo passò rapidamente allo squadrismo più acceso, specialmente dopo il congresso di Roma dello stesso anno, in occasione del quale fu fondato il partito in cui prevalsero gli estremisti. Dopo la caduta di Bonomi si giunse ad una lunga ed estenuante vacanza governativa, che sfociò nella nomina dell’irresoluto Facta a Presidente del Consiglio. Nel luglio del 1922 il governo entrò subito nella crisi aperta dai massimalisti socialisti che proclamarono lo sciopero generale per «difendere le libertà politiche e sindacali minacciate dalle fazioni reazionarie». I fascisti, allora, si sostituirono allo Stato e lanciarono il loro ultimatum contro il proletariato e contro l’apparato statale, concentrando le loro squadre d’azione attorno alla capitale e dando poi inizio, il 28 ottobre del 1922, alla cosiddetta marcia su Roma. Respingendo la richiesta di stato d’assedio avanzata da Facta, il re Vittorio Emanuele III diede una soluzione extracostituzionale alla crisi e incaricò Mussolini di formare un nuovo governo, anche al fine di assorbire le residue resistenze antimonarchiche del fascismo.
    Definito, allora, il potere di Mussolini, l’attenzione e l’impegno di ricerca possono rivolgersi ai rapporti tra il duce ed il popolo ed il tema si può affrontare anche sulla base dell’analisi degli inni del “ventennio”, nei quali vennero enucleate e messe in luce alcune idee etico-politiche, particolarmente importanti, che costituirono le tessere del mosaico ideologico e la formula della nascita del futuro “impero”. In molte di quelle canzoni si riscontrarono le testimonianze ed i segni della graduale “chiarificazione” del regime, che si concluse nel riconoscimento del dato di fatto “inoppugnabile” che gli “italici” erano per eccellenza i discendenti di Roma ed erano anche l’essenza del nuovo impero che rappresentava, dunque, il naturale coronamento della monarchia sabauda. 
Dopo la Grande Guerra si verificò un progressivo allontanamento della collettività dalla politica attiva e dalla gestione della cosa pubblica e così anche i canti, gli inni e le canzoni furono utili a far rinascere nel popolo italiano l’attenzione e l’interesse per il fascismo: i contenuti politici del nuovo regime – ossia i presunti impegni sociali – furono diffusi anche attraverso la musica, elemento propagandistico tra i più efficaci e, sicuramente, «strumentalizzazione non secondaria» (Mercuri-Tuzzi, p. 19). A quel tipo di attività volta alla persuasione, alla diffusione ed al sostegno di determinate posizioni ideologiche, hanno sempre fatto ricorso e hanno dato grande importanza i governi di cosiddetta “democrazia diretta”, le dittature, i partiti più in vista, le religioni, ma soprattutto le dittature, in perpetua ricerca di più larghi e più vasti consensi e proselitismi. Francesco Sapori, nella sua raccolta di Canti della patria, enunciava un programma ben preciso: «Muovere guerra al linguaggio cadaverico, astratto, surrealista. Contro di esso non leveremmo la voce; seppure, la frusta. Crediamo al calore dell’ispirazione, per spiritualizzare e trasfigurare la realtà» (Sapori, p. 16). C’è ben poco da interpretare: sui fatti dell’arte e sui mezzi dell’espressione, anche con modi impropri, doveva agire l’utilitaristica «trasfigurazione della realtà». La fantasia, la leggenda, il mito, vitalisticamente assai ricchi, dovevano essere, più che suggeriti, imposti agli immaturamente ambiziosi uomini della nuova Italia. Ma quelle composizioni, se andiamo a guardare bene, furono soltanto un continuo muoversi al di sopra delle righe ed un lungo straripare: alla maggior parte di esse, a distanza di tempo, si può tranquillamente negare il serio impegno politico; al massimo, si possono riconoscere, in alcuni casi, soltanto una applicazione diligente ed appassionata, un impiego volenteroso (e talora ostinato) delle energie e delle facoltà di alcuni autori ed a volte, fervore, premura, zelo e passione.
Per raggiungere gli obiettivi di far odiare il nemico “bolscevico” e di esaltare gli istinti per la guerra, il fascismo fece continuo ricorso ad un canzoniere ricchissimo, che rivelava un aspetto non nuovo dell’impegno politico, sotto certi riguardi molto simile a quello presente in altri paesi, in Italia e fuori, in Occidente e nell’Europa Orientale. I risultati non si fecero attendere, anche se i versi non furono così innovatori da destare sorpresa o, diciamo pure, qualche turbamento… furono considerati, molto ingenuamente, più che canti, «rime di devoti, che sono preghiere alla divinità sconosciuta, preghiere di uomini vivi nel sole e saldi nel destino», canti che «rimangono come il testamento popolare e politico di un’epoca... Che vibrano di gioventù, di gioia, di volontà e di eroismo più che di malinconia... Il fascismo ha vinto perché aveva le canzoni più belle degli “altri”!» (Gravelli, pp. 8-13).
La fortuna della canzone in terra d’Italia ha subìto spesso notevoli oscillazioni, dovute anche ai mutamenti della situazione politica; pure è possibile seguire con una certa sicurezza una linea di svolgimento pressoché costante che, partendo dall’Ottocento, si fece decisa e marcata agli inizi del Novecento; e mentre la melodia italiana si diffondeva sempre più, il fascismo, ormai saldamente al potere, cominciò ad esercitare un rigorosissimo controllo anche in quel campo: nel 1924 «una circolare del Partito nazionale fascista recava l’ordine di presentare tutte le canzoni straniere con parole “comunque tradotte”. Sarà la sagra delle parole in libertà. Un esempio? L’inno universitario Collegiate diventò: “Picche nicche / E chi se ne fricche / Picche nicche / Parroco e sindicche...”. E mentre il cognac diventava “arzente” e il pullover “farsetto”, il nome di Louis Armstrong veniva tradotto in quello di Luigi Braccioforte e quello di Benny Goodman in quello di Beniamino Buonomo…» (Borgna, p. 106). 
In quanto alle rime, pur nel variare dei significati, comparvero spessissimo abbinamenti come valore-onore, battaglia-mitraglia, valore-tricolore, bellezza-ebbrezza, ardire-avvenire, cimento-ardimento, libertà-fedeltà, e quant’altro, mentre il “vincere o morir…” rappresentò l’epilogo della maggior parte dei canti, senza contare l’altra terminologia, relativa, in modo diretto o allusivo, a fattori politici. Anche l’uso delle frasi-titolo fu di per sé eloquente: il linguaggio cruento ed eroico doveva balzare con veemenza dalla schematica incisività del titolo per essere poi esasperato nelle sue implicazioni significative anche con studiati accorgimenti; spesso si passava, con grande naturalezza, dalla commedia alla tragedia, dall’umorismo all’orrore, con una contaminazione di toni che tanto piaceva. Ci fu, nel contenuto dei canti, un forte distacco dalla realtà, ma i tanti morti e le numerose vittime rappresentarono un risvolto che non era stato del tutto previsto! Molto presto la morte venne accettata come una regola del gioco; a mano a mano che i canti crescevano di numero, la violenza in essi divenne quasi palpabile, lacerante: in quello consistette la loro essenza, che li distinse, nettamente, da quelli della Grande Guerra. Compito primo dei corifei, quindi, fu quello di coinvolgere i cittadini nell’aspetto tragico e pseudo-eroico dell’avventura violenta, ma nello stesso tempo anche di mostrare loro quali fossero gli effetti delle azioni “eroiche”, con tanto compiacimento e con tanta ipocrisia.
    Ma il fascismo, è noto, si ritenne il grande creatore di tempi nuovi, il fausto liberatore delle forze fresche e sane della nazione e la rinnovata Italia in camicia nera, di conseguenza, dovette rappresentare anche la vera musa del nostro rinnovato canto. E così, a poco a poco, le redini della censura si restrinsero e ci si avviò verso atteggiamenti meno tolleranti anche in musica: nel 1929 «i carabinieri emanarono una serie di circolari aventi per oggetto i dischi contrari all’ordine nazionale o comunque lesivi dell’autorità. Nell’elenco figuravano, tra gli altri, inni nazionali come La Marsigliese, canti socialisti e anarchici e persino ballate sulla ricostruzione della sfortunata impresa del generale Nobile al Polo Nord. Essendo entrati in vigore quell’anno i patti lateranensi, non venivano ammessi riferimenti men che rispettosi alla “Religione di Stato” e, colmo dei colmi, nei fulmini della censura incappò addirittura La leggenda del Piave, divenuta nel frattempo popolarissima, perché conteneva espressioni sconvenienti come tradimento o onta consumata a Caporetto, che verranno opportunamente emendate» (Borgna, pp. 106-107). 
Si deve quindi osservare che, per motivi di scelta dettati da considerazioni estranee alla musica, per la faziosità di certi atteggiamenti pseudocritici e nazionalistici e per effetto della censura fascista, il pubblico italiano ebbe una visione falsata (spesso edulcorata ed eroicizzata) della situazione politica, che spesso venne conosciuta e quindi apprezzata anche per merito degli indirizzi dominanti nell’innodia del tempo, sulla quale esercitarono pesanti influssi i canoni della cosiddetta “arte di regime”. 
Ma a descriverli così, quei canti, a freddo, lontani nel tempo, quasi remoti – si dirà – si demolisce facilmente qualsiasi composizione: è vero! Certo, bisogna andare cauti nel formulare giudizi, anche perché il pubblico dei nostri giorni è fin troppo arrendevole, mentre si mostrano fieramente combattivi e sdegnosi gli “anziani”, i “reduci”, i “sopravvissuti”, i “nostalgici” vecchi e nuovi, che non vogliono veder bistrattate le note che accompagnarono e segnarono la loro gioventù. Si potrà facilmente convenire, credo, sul fatto che il “plateale” e il “fumettistico” presenti in molti canti, oggi lo scopriamo molto più facilmente di allora e si potrà anche affermare che in quelle canzoni mancò totalmente l’impegno, concetto dubbio ed astratto del quale ancora oggi non s’intende appieno il significato, ma è pur certo che una rilettura a distanza di tempo può condurre a delle sorprese e a suggerire una valutazione più esatta del “clima” socio-politico di una stagione, quella fascista, che comincia solo ora ad avere una valutazione più equa, anche alla luce della nuova documentazione esistente. Debbo aggiungere, per amore di verità, che se mancarono al fascismo, nonostante i “Littoriali”, veri poeti, non mancarono, tuttavia, alcuni buoni compositori di musica. 
D’altronde, nel mio giudizio, mi viene in aiuto il segretario del partito fascista Turati, che così ebbe a scrivere ed a lamentarsi dell’innodia del tempo: «Ho notato con disappunto il fiorire di inni, canzoni e marce fascisti destinati ai Balilla, alle Avanguardie, ai Fascisti, a tutte le organizzazioni del Regime. Valore artistico: NULLO! Assolutamente!... Non sempre l’inno dedicato al Duce o una musica per Balilla erano dei semplici e puri atti di omaggio al regime, anche se compiuti con soverchia ingenuità artistica: spesso, in nome del Fascismo, purtroppo se ne tentava la diffusione in soldi contanti... Così è stato messo un punto fermo. Il Fascismo ne guadagna in dignità. Non parliamo poi di quanto ci guadagna l’arte» (Augusto Turati, L’On. Turati contro l’abuso di inni pseudo-fascisti, in “Il Bargello”, 4 agosto 1929). E se lo affermava il segretario del partito fascista...!
    Iniziamo, dunque, con l’Inno Trionfale del Partito Nazionale Fascista, Giovinezza!: «Per ordine di Sua Eccellenza il Segretario del P.N.F. l’inno Giovinezza! dev’essere ascoltato nella posizione di attenti. Alle prime battute si saluta romanamente...»; le strofe erano guidate dal desiderio imperioso di grandezza, di chiarezza, di ordine, di gloria, d’onore. Ne esistevano diverse versioni e nella definitiva, quella voluta dal duce, di Salvator Gotta e di Giuseppe Blanc, l’esordio marziale era quello noto: «Salve, o popolo di eroi, / Salve, o Patria immortale / Son rinati i figli tuoi / Con la fé degli ideali...». Dell’eroismo si faceva un esercizio di potenza energetica; il fascismo era «redentor», gli dava una mano anche Dante Alighieri, mentre Mussolini veniva presentato come padre dei nuovi italiani e dei nuovi confini d’Italia, «rifatti per la guerra di domani». Quella versione enumerava temi sufficientemente idilliaci e nazionalistici: ovviamente erano presenti i guerrieri, ma c’erano anche i pionieri, i poeti, gli artigiani, i signori, i contadini… forse perché questi ultimi facevano rima con Mussolini… e poi le bandiere e le schiere, insomma era meno “esagitata” delle altre; il ritornello, simile in tutte, si riferiva alla «Giovinezza giovinezza / Primavera di bellezza» come esaltazione spirituale, in una grande confusione di valori morali e fisici.
La versione degli arditi, quella che esordiva «Col pugnale e con la bomba/ Nella vita del terrore…», appariva meno poetica e più militarizzata ed esaltava, naturalmente, la tradizione guerresca con i dovuti riferimenti all’eroismo italico: «Guerra guerra all’austriaco invasor»; erano presenti tante armi: il pugnale lo si trovava in quattro delle cinque strofe, la bomba in tre, poi spuntavano anche la trincera, l’obice, la fiamma, la mitraglia: «Allorché dalla trincera/ Suona l’ora di battaglia/ È la prima “Fiamma Nera”/ Che terribile si scaglia…»; il ritornello era sempre lo stesso.
Nella versione di inno fascista non figuravano i riferimenti sociali e “culturali”, ma si accentuavano le armi, le fiamme, le battaglie, la fede, la gloria e l’onor. Era quella che esordiva: «Su compagni in forti schiere/ Marciam verso l’avvenire/ Siam falangi audaci e fiere/ Pronte a osare e pronte a ardire…»: nel ritornello si aggiungeva il riferimento al duce: «Per Benito Mussolini, Eja, Eja, Alalà». Il noto grido di guerra Eja, Eja, Alalà fu suggerito da D’Annunzio il 9 agosto del 1917, nel campo della Comina, in Friuli, in sostituzione del “barbarico” Hip, hip, urrà, con il quale i compagni salutavano il poeta. Non piacque al vate, quell’Hip, che gli ricordava «l’urlo degli ukase e che è la benedizione del pontefice moscovita» e volle mutarlo – dopo che tutti i presenti si «mondarono la bocca dell’urrà col rovescio della mano» – con i riferimenti classici alla esclamazione latina eja e all’alalà, col quale Achille aizzava i cavalli: il guerriero greco, infatti, prima di lanciarsi contro Ettore, emise quel grido, come ricorda anche Pascoli nel verso «emise allora un alalà di guerra»; divenne presto d’uso comune tra i soldati e dopo la guerra fu ripreso dai fascisti.
Per gli uomini della marcia su Roma e per i cosiddetti “antemarcia” la posta in gioco era “l’assestamento” politico della penisola dopo lo sconvolgimento creato dalla Grande Guerra e con l’armistizio riprese vita, per loro, l’inno della “Giovinezza”, sicuramente il più cantato: «A ritmi d’assalto, quasi, ché i giovani avevano ancora il passo dei reparti d’assalto, passo corto, lesto, e che “Giovinezza” bene marcava. Fu quasi una sfida della poesia, alla piazza. Gli “altri” invocavano la gioia terrena, noi, non chiedevamo che una primavera di bellezza il cui segreto era nella gioventù. Così cantammo il 15 aprile del 1919 a Milano, il 25 aprile a Brescia, quando Wilson negò l’italianità della Dalmazia, ed ovunque il canto fu gettato, affinché valesse a scalpellare le anime per rimettere al sole un orgoglio…» (Gravelli, p. 70).
Giovinezza! nacque come canto goliardico, dal titolo Commiato, nel 1909: «Son finiti i giorni lieti / Degli studi e degli amori…». Divenne in seguito patrimonio canoro degli alpini: nel 1910, a Bardonecchia, durante un corso di addestramento-sciatori per ufficiali degli alpini, Giuseppe Blanc, che partecipava a quel corso, volle cantare al pianoforte la sua creazione, Commiato, che piacque molto ai presenti tanto da venir promossa, seduta stante, Inno degli sciatori: fu avviata prontamente ai reggimenti degli ufficiali presenti al corso (fu eseguita anche in Libia nel 1911). Nel 1917 fu proclamata Inno degli Arditi, dai quali passò ai primi fasci di combattimento; venne cantata durante la marcia su Roma e da allora fu considerata l’inno ufficiale del regime, sotto la guida del «Capo impareggiabile contro l’orda bolscevica... accompagnò le tappe sanguinose e vittoriose della rivolta che ruggiva nelle città, invadeva le campagne, penetrava nei villaggi, saliva le montagne, tricolorava l’Italia! Fu l’inno della riscossa indomabile...» (Gravelli, pp. 56-57). Fu senza dubbio «il primo canto fascista... Cambiarono le parole, rimase immutato lo spirito che lo aveva per la prima volta animato… al suono del quale si combatterono le più belle battaglie…» (Carrara, p. V).
Il ritornello «Giovinezza, giovinezza» rappresentò l’adattamento – operato dal sottotenente degli arditi Marcello Manni – di un coro tratto dall’operetta Festa dei fiori, di Giuseppe Blanc, con parole del giovane poeta Nino Oxilia, morto in guerra nel novembre del 1917. Ma erano presenti, in qualche modo, altri autori: il poeta Vittorio Emanuele Bravetta (che incontreremo in tante altre occasioni), per la versione di Torino, mentre, per la versione diffusa a Firenze, c’era una riduzione di Ernesto Vitale. I versi di quella ufficiale e definitiva erano del poeta di Ivrea, Salvator Gotta, scritti per espressa volontà e per incitamento dello stesso Mussolini. Pur nella sua veste di inno fascista – come affermò Marcello Manni – rimase sempre e in prevalenza l’inno dell’arditismo. La realtà fascista, inevitabilmente eroica, doveva trascinare alla lotta e alla gloria e doveva restituire all’uomo italico la sua “vera” dimensione: quella del combattente! Erano note le parole di Marcello Manni: «Compagni torinesi, io vi porto una canzone che è vostra, una canzone che forse il vostro bel cielo ispirò, una canzone che porta ancora viva la freschezza di un canto goliardico. Pur nella sua veste fascista, essa rimane la canzone dell’arditismo…» (M. Manni, Il successo del giorno, in “Domenica del Corriere”, 18 novembre 1922).
Il padre storico del canzoniere fascista fu certamente Giuseppe Blanc (nato a Bardonecchia l’11 aprile del 1886 e morto a Santa Margherita Ligure il 7 dicembre del 1969), «sbadigliatore infaticabile sui banchi dell’Università, ma allievo intelligente ed assiduo del Liceo Musicale, ove studiò armonia e contrappunto; giovane montanaro, piemontese, biondo, e “ben piantato”... sapeva suonare tutti gli strumenti, dalla fisarmonica al violino, forsennato capo-banda durante le scorrerie notturne per la città addormentata…» (Gravelli, p. 53). Studiò a Torino con G. Bolzoni e fu poi allievo di W. Braunfels a Monaco. Dopo la laurea in giurisprudenza, conseguita a Torino, fu combattente nella Grande Guerra come ufficiale sciatore; divenne notissimo alle genti come compositore della musica dell’operetta Festa dei fiori, presentata per la prima volta al pubblico nel gennaio del 1913 dalla compagnia Vecla-Vannutelli, al teatro Eliseo di Roma: la musica ebbe ottime accoglienze. Compose ancora Fiançailles, Le statuette di Chelsea (pantomima), Il convegno dei morti (visione tragica, libretto di Salvator Gotta, 1923), La valle degli eroi (libretto di S. Gotta, 1931), alcuni ballabili, tra cui il noto Malombra e numerosi inni e canzoni che incontreremo nel prosieguo del presente lavoro. 
Ma il genere dell’operetta non godette i favori di Mussolini al potere, il quale, pur consacrando il Blanc iniziatore del canzoniere di regime, tuttavia si scagliò contro quel genere poco marziale, facendo mostra di un’istintiva prevenzione, non disgiunta da una forma quasi morbosa di avversione contro gli stereotipi italiani: chitarre, mandolini, serenate, tabarins (vietati nel 1927), canzoni dialettali e, appunto, l’operetta. E Blanc non perseverò su quella strada e riuscì, almeno nel caso di Giovinezza!, ad attenuare l’ombra della vecchia farsa goliardica. In seguito ebbe spesso mano felice e copiosa produzione, anche se non sempre riuscì a restare completamente fuori da trame banali, da vieti luoghi comuni e da motivetti scontati. In ogni caso, l’inno ufficiale di un regime autodefinitosi “virile”, come quello fascista, non poteva affondare le sue radici nel genere leggero dell’operetta e nella cantilena che sapeva troppo di canzone popolaresca ed è forse per quel motivo che Gravelli, nel suo testo (pp. 57-59), tentò di scoprire altre e più nobili origini: le andò a cercare lontane nel tempo, nelle affermazioni del vecchio “critico popolare” di Marina di Pisa, Dore Ceccherini, negli studi del “noto libraio” Alfredo Becherelli di Arezzo, negli “spartiti” del signor Gino Longhi di Bologna, nell’affannoso tentativo di colorarle di vetustà e di tradizione che l’inno non possedeva.
Ci furono anche molte risposte, in chiave antifascista, alle canzoni del ventennio, molti controinni e uno dei principali autori fu senza dubbio il poeta popolare Spartacus Picenus, alias Mario Offidani; quel tipo di controcanto servì «a deridere l’avversario e a ritorcergli contro le parole d’ordine, metodo che usavano spesso anche i fascisti» (Settimelli-Falavolti, p. 80). Molto note le parodie da cantare sull’aria di Giovinezza!; tra le altre, Bolscevismo, bolscevismo: «Bolscevismo! Bolscevismo! / Tu sei il vero Socialismo! / Bolscevismo! Bolscevismo! / Tu ci dai la libertà!...»; Delinquenza, delinquenza: «Sono avanzi di galera / Son banditi, son ladroni / Son la nuova mano nera / Al servizio dei padroni... Delinquenza, delinquenza / Del fascismo sei l’essenza / Col delitto e la violenza / Tu oltraggi la civiltà…». Un’ulteriore versione della stessa parodia, sempre dal titolo Delinquenza, delinquenza, così suonava: «E si chiamano fascisti / Va con forza e va con cuore / In realtà sono teppisti / Sotto il manto tricolore / E taluni discendenti / disonorano l’Italia / Son protetti dalla sbirraglia / Hanno sicura impunità... Delinquenza, delinquenza...». C’era poi Guardia regia, guardia regia: «Per un pugno di monete / Per un pane che ti han dato / Rinnegasti la tua meta / Quella del proletariato / Hai tradito e abbandonato / I compagni di lavoro / Con i quali nel passato / Tu lottasti per l’avvenir… Guardia regia, guardia regia / Contro te la guardia rossa / Alla prossima riscossa / La tua infamia punirà...». Ed ancora la ben nota parodia Matteotti, Matteotti (G. Salviucci Marini): «Matteotti, Matteotti / Grande martire d’Italia / Mussolini coi gambe in aria / Lo faremo fucilar / Mussolini, traditore / Che d’Italia fa il terrore / Matteotti, uomo d’onore / Lo faremo incoronar…»: l’immagine di Mussolini appeso per le gambe come a piazzale Loreto, «fa pensare ad un inserimento posteriore di questi versi nel corpo di una canzone che la Facchetti data al periodo successivo alla morte di Matteotti» (Avanti popolo!, fasc. 7, p. 123). Sempre sull’assassinio di Matteotti si potevano ascoltare altre canzoni: Sulla sponda argentina (G. Salviucci Marini) e Corso Regina Coeli c’è una salita (E. Esposito-E. Cuppone), in Avanti popolo! (fasc. 7, pp. 122-123). Canta di Matteotti (anonimo), registrazione raccolta da Ernesto de Martino ad Alfonsine (Ravenna) il 20 ottobre 1951, da un informatore ignoto, canta Michele L. Straniero. Povero Matteotti (I) e Povero Matteotti (II), in Settimelli-Falavolti, cit., pp. 85-88. 
Ma una delle più note ed efficaci parodie di Giovinezza! fu sicuramente quella dal titolo Giovinezza pé ‘n tal cü (Giovinezza, scarpate nel culo - Anonimo): «Giovinezza, pé ‘n tal cü, giovinezza, pé ‘n tal cü / Primavera di gaiezza, pé ‘n tal cü / Il fascismo è la schifezza, pé ‘n tal cü / Della nostra libertà, pé ‘n tal cü…»; le mondine nelle risaie, e le operaie in fabbrica, mettendola in burla con diffusa ironia, la cantarono fino al 1935: registrazione di Cesare Bermani, Lumellogno (Novara), ottobre 1963, canta Fenisia Baldini (cfr. Avanti Popolo!, fasc. 7, p. 123).
    Altro tipo di varianti, naturalmente, furono apportate al testo di Giovinezza!. Già nel 1919 i legionari della marcia su Ronchi cantarono Fiume o morte. Nel 1921 i fascisti milanesi intonarono Mussolini, salvatore, quando il duce cadde nel campo di Arcore con l’aeroplano. Ed ancora Oggi son tutti fascisti, canzone della “vecchia guardia”. Inoltre C’è chi vuole andare in Russia: «C’è chi vuole andare in Russia / Da Lenin ci si sta bene / Mangia senza lavorare e non soffre tante pene…» e Siamo pronti: «Siamo pronti ed inquadrati / Non temiamo l’imboscata / De’ bolscevichi dannati / Perché siam la “Disperata”…». Anche le italiche fanciulle cantarono sull’aria di Giovinezza!: «Disprezziam gli svenimenti / Le pettegole volgari / Le megere delinquenti / Che han per sangue avidità…».
Sulla stessa aria si snodava l’inno dei “sempre pronti”, Fiamma Azzurra, del 1922; la fissità dei tipi e dei temi diveniva, in quel caso, limitatezza artistica; il canto era abbandonato alle esigenze pratiche, con lo scopo di strappare il consenso a sempre più vasti strati della popolazione; il modo di porgere le rime era superficiale, c’erano soltanto una grande abilità teatrale, il solito gioco di mezzi attinti alla psicologia più spicciola e la conoscenza dei meccanismi della scena: «Sopra il nostro fermo petto / Spazia l’aquila imperiale / Sull’azzurro gagliardetto / Raggia un simbolo ideale…»; si combatteva il “tradimento”, si disperdeva la “suburra”, si contrastavano gli uomini “nefasti che spregiano i nostri morti”; erano presenti gagliardetti, manipoli ed il destino del domani d’Italia, che era, doveva essere, «Oltre l’Alpe ed oltre il mare…», per i Savoia e per il re. 
Cominciarono ad apparire, all’inizio degli anni Venti, anche i vagheggiamenti di una presunta superiorità morale e di una presunta integrità spirituale e politica degli italiani e dei fascisti, che sarebbero scaturite in modo del tutto naturale dalla diuturna lotta che i “marciatori” in camicia nera venivano portando contro i «vigliacchi comunisti», appartenenti ad una società considerata inferiore: ed infatti il popolo italiano non aveva forse dimostrato di essere – tolte «esigue selezioni di pervertiti urbani e suburbani e tolte poche centinaia di demagoghi» – fra tutti i popoli d’Europa, quello che presentava una maggiore resistenza al concretarsi delle «idee russe»? Esso era per eccellenza “antirusso”, «per la sua sanità morale, per la sua sanità fisica, e soprattutto per una cospicua dose di solido buon senso, fatto di un provvidenziale equilibrio... Il popolo italiano è incapace di seriamente e profondamente ammalarsi di ideologie…» (E. Corradini, Disordini, scioperi, bolscevismo, ma popolo sano, in “Il Carroccio”, 16 luglio 1919).
Sempre sull’aria di Giovinezza! si librava il Canto delle donne fasciste, del 1923, intriso di fanatismo, come se ne vedranno moltissimi in seguito; tono, flusso e musica identici alla matrice; cambiavano solo le parole, prova che il regime prendeva il suo tornaconto dovunque lo si trovasse e si serviva dell’aria musicale di un inno – che aveva riscosso grandi consensi popolari – come materia grezza con la quale creare qualcosa di nuovo. Faceva la sua prima, timida apparizione una sorta di “femminismo” ante-litteram, ben presto rinnegato dal regime: «Cosa importa se siam donne? / Non alberga in noi paura / Né c’intralciano le gonne / Nella lotta santa e pura…». Il livello era complessivamente mediocre; evidentemente non bastavano i riferimenti agli odiati «comunisti» a dar vigore al canto: «Su venite comunisti / A sfogar le vostre ire / Come i martiri fascisti / Anche noi sappiam morire…»; erano ancora presenti – sarebbero ben presto scomparsi – toni anticlericali: «Le beghine disprezziamo / Che non han niente di pio…»; il tutto si concludeva con il ritornello «Giovinezza, giovinezza…». Si cominciava già a sentire il bisogno di una profonda revisione della struttura organizzativa musicale e degli strumenti per la ricerca di nuovi motivi, di nuove canzoni, revisione che, verosimilmente, prenderà l’avvio alla fine degli anni Venti. Giacomo De Marzi
MUSSOLINI ULTIMO ATTO
Centro Studi e Documentazione di Salò. 2004
SALÒ. Un libro fotografico promosso dal Centro Studi e Documentazione di Salò sul periodo 1943-1945 Mussolini ultimo atto: i luoghi della Rsi 
Una mappa fotografica dei luoghi in cui, fra il settembre 1943 e l'aprile 1945, si consumarono le vicende della Repubblica Sociale Italiana. I ministeri, gli uffici amministrativi, le caserme, gli ospedali, gli alloggiamenti dei gerarchi e degli ufficiali, distribuiti sulla sponda bresciana del Garda. Gargnano, con la residenza del Duce a Villa Feltrinelli, era la capitale della Repubblica fascista; Salò ospitava la maggior parte dei ministeri, da cui il nome dato all'ultima effimera creatura di Mussolini; Gardone Riviera aveva trasformato i suoi grandi alberghi in ospedali, mentre a Villa Fiordaliso viveva l'amante del Duce, Claretta Petacci. La Rsi era ospitata anche a Barbarano, Fasano, Toscolano Maderno e Bogliaco. Si trattava di ville, palazzi, alberghi, edifici ancora esistenti e ben individuabili. Il Comune di Salò, con il contributo di quello di Toscolano Maderno, e il "Centro studi e documentazione sul periodo storico della Repubblica Sociale Italiana", presieduto dal prof. Roberto Chiarini, hanno pubblicato un volume con fotografe d'epoca: "Mussolini ultimo atto. I luoghi della Repubblica di Salò". Il libro, uscito dai torchi della Compagnia della Stampa Massetti Rodella, è curato da Roberto Chiarini e riporta un contributo del giornalista Tonino Zana; l'allestimento iconografico è di Simone Bottura. In apertura lo storico Chiarini si incarica di inquadrare le vicende del periodo in un breve saggio, mentre tutte le fotografie, oltre un centinaio, sono corredate da esaurienti didascalie. La particolarità del libro sta nel suo intento: fungere da agile guida, soprattutto per gli stranieri in visita sul Garda. I testi, infatti, sono proposti anche in inglese e in tedesco. Come ricordano in premessa i sindaci di Salò, Giampiero Cipani, e quello di Toscolano Maderno, Paolo Elena, il turismo culturale è in rapida diffusione, e la sponda bresciana del Garda può offrire straordinarie mete ed occasioni. Compresi i luoghi che furono testimoni di un momento storico tremendo come fu la Rsi. Ecco, dunque, l'idea di questo libro, che ha il pregio di offrire rapide e precise informazioni a chi volesse seguire l'itinerario dell'ultimo atto mussoliniano. Un viaggio che riguarda la storia, ma anche l'arte, l'architettura, il costume. Basti pensare alla raffinatezza dei tre grandi alberghi liberty di Gardone trasformati in ospedale. Oppure alla magnifica Villa Feltrinelli di Gargnano, a Villa Zanardelli di Maderno (pure ospedale), al settecentesco palazzo Bettoni di Bogliaco (sede della presidenza del Consiglio dei ministri), al cinquecentesco palazzo della Magnifica Patria, ora municipio di Salò (ospitava l'ufficio interpreti tedesco), al liberty Hotel Laurin di Salò (era il Ministero degli esteri), a Villa Alba di Gardone (accoglieva la stazione radio). Ci sono edifici anonimi, che evocano più direttamente memorie di guerra, soprattutto Salò: la caserma della X Mas nell'attuale sede del liceo Fermi, il comando della Guardia Repubblicana nell'ex Collegio Civico, la sede delle Brigate Nere nell'oratorio maschile. Oppure Villa Roma a Gardone, sede del comando militare tedesco. Per avere informazioni su dove reperire il libro ci si può rivolgere al dott. Daniele Comini, al "Centro Studi e Documentazione sulla Rsi": 0365/296834. 
GIORNALE DI BRESCIA ? Giugno 2004 Enrico Mirani
 
 
Gigi Salvagnini STORIA MITI E LEGGENDE DEL FASCISMO VALDINIEVOLINO
Firenze, 2004, 8° bross. pp. 184, con 28 ill. € 18,00 
Paolo Paoletti FIRENZE AGOSTO 1944 Alleati, tedeschi, C.T.L.N., partigiani e franchi tiratori nel mese più sanguinoso della storia fiorentina
2004 Edizioni Agemina pag. 256 € 17,00
Quest’ultimo lavoro di Paolo Paoletti è il frutto di anni di ricerche all’estero e in Italia ed il primo saggio storico sulla Liberazione fiorentina scritto sulla base della documentazione bibliografica e archivistica straniera. Si ricostruiscono le scelte degli Alleati, della Repubblica Sociale e del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale, che portarono ai combattimenti dentro per la resistenza dei franchi tiratori. Le conseguenze di queste scelte contrapposte furono che la città perse per sempre l’ultimo tessuto urbanistico medievale e che l’agosto 1944 fu il più sanguinoso di tutta la storia millenaria della città, con circa 700 morti.  Nuovi documenti e testimonianze edite e inedite sfatano molti luoghi comuni della storia fiorentina dell’agosto 1944; fino al 16 luglio la “città aperta fu rispettata dai Tedeschi ma non dagli Inglesi, che alla fine del mese scatenarono contro Firenze il più massiccio attacco mai avvenuto nell’Italia Centrale, per cui, come scriverà Churchill, “i Tedeschi furono costretti a difendersi” cioè a far saltare i ponti. In copertina un esempio di questa manipolazione della storia: le esplosioni sopra le pigne del ponte a S. Trinita furono opera dei genieri britannici il 13 agosto, dopo che le arcate erano state distrutte dai tedeschi nella notte tra il 3 ed il 4 agosto. 
Gigi Salvagnini L'ULTIMA GUERRA CIVILE Firenze e la RSI
2004
Firenze, 2004, 8° bross. pp. 124. Con 12 ill. € 14,00
La storia della prov. di Firenze nel periodo 1943-46 per la prima volta affrontata da uno osservatore di parte fascista
 
 
 
Erra Enzo LA PATRIA CHE VISSE DUE VOLTE – Il fascismo dal 25 luglio al 25 aprile
Edizioni Il Settimo Sigillo, Roma 2004, pp. 141, prezzo € 14,00, può essere acquistato presso Edizioni Il Settimo Sigillo Via Santa Maura 15 00192 Roma. Tel 06/39722155 – Fax 06/39722166; rete www.libreriaeuropa.it; Posta: ordini@libreriaeuropa.it.
Intervista a Enzo Erra, autore del libro, a cura di Luigi Tedeschi:
 1) Il titolo stesso del tuo libro "La Patria che visse due volte – Il Fascismo e l’Italia dal 25 luglio al 25 aprile" richiama alla mente il concetto di "morte della Patria" come conseguenza diretta non tanto della sconfitta militare italiana, quanto della fine del regime fascista realizzatasi con il tradimento del re e del Gran Consiglio negli eventi del 25 luglio e dell’ 8 settembre 1943. La "morte della Patria" è un evento che rappresenta una definitiva rottura dell’Italia antifascista rispetto a quella della tradizione risorgimentale prima e fascista poi, oppure sono sopravvissuti alla stessa "morte della Patria" elementi identitari, istituzionali e culturali che si sono perpetuati a tutt’oggi?
Come altri che hanno affrontato il problema, anche io vedo morire la Patria nell’estate del 1943. A me sembra però che il momento in cui la Patria scompare, sia il 25 luglio e non l’8 settembre, e non solo perché la capitolazione, con tutte le sue tragiche e prevedibili conseguenze, era già palesemente contenuta nella decisione di abbattere e demolire il regime che stava conducendo la guerra, ma anche e soprattutto perché, troncando di colpo l’esperienza fascista, l’Italia uscì bruscamente dal solco che aveva seguito verso l’unità prima, e verso la sua affermazione nel mondo poi. C’é un impulso vitale che spinge prima gli italiani a unirsi superando ogni ostacolo, poi a dare un senso alla recuperata unità. impegnandosi in una vasta impresa comune nel segno del fascismo. lI 25 luglio interrompe questa impresa nel punto più alto e insieme più drammatico, mentre le forze internazionali dell’antifascismo che l’Italia fascista aveva sfidate, invadono il territorio italiano. Qui la Patria muore, non perché è militarmente sconfitta, ma perché nel culmine di una prova suprema che ha deliberatamente affrontata, smarrisce se stessa, e la sua ragion d’essere, Nei più che cinquant’anni seguenti non vi è stato alcun tentativo per ritrovare lo slancio che in quel giorno si interruppe. Tutti gli sforzi che in questi ultimi anni vengono compiuti per rispolverare bandiere e riascoltare inni dopo averli tenuti tanto a lungo in soffitta, vanno tutti nella direzione opposta, verso quel mito della resistenza e dell’antifascismo che proprio il 25 luglio trionfò, mentre la Patria moriva.
2) Dopo l’8 settembre, i motivi ideali che condussero alla nascita della RSI furono costituiti oltre che dai sentimenti di riscatto patriottico dell’onore della Patria italiana sconfitta e tradita, non vi furono istanze di rigetto e rinnovamento morale e politico del regime fascista stesso, caduto proprio a causa dell’eterna ambiguità scaturita dal compromesso con la monarchia e l’Italia "non fasciata. Non è un caso che, a proposito della RSI, si parli di ritorno alle origini del fascismo rispetto al regime del ’40. La RSI rappresentò una nuova forma di Stato rispetto al fascismo del ventennio?
La RS1 rappresentò certamente una nuova forma di Stato, se non altro perché era una Repubblica, mentre il regime del ventennio era stato una Monarchia. La decisione di convocare la Costituente, annunciata dal primo dei 18 punti approvati dal Congresso del PRI a Verona, sorgeva proprio dall’esigenza di dare al nuovo Stato fascista una forma compiuta, nei suoi organi e nelle sue funzioni, La breve e agitata vita della RSI non consentì che questi propositi venissero attuati. Il problema rimase aperto, mentre il territorio della Repubblica si restringeva sotto l’urto delle armate angloamericane, e mentre il Partito stesso era costretto a dare la prevalenza ai suoi compiti militari rispetto a quelli programmatici e dottrinari, e si trasformava nel Corpo delle Brigate Nere per affrontare la guerra civile scatenata dagli antifascisti. Le condizioni erano le meno adatte per un dibattito organico e compiuto, e tuttavia si continuò a discutere fino all’ultimo giorno. Perciò, su quello che sarebbe stata la RSI se avesse potuto avere uno sviluppo naturale e organico, si possono fare solo ipotesi, e non è possibile attribuirle categoricamente una forma piuttosto che un’altra. Io comunque non userei con tanta sicurezza la formula "ritorno alle origini", che viene citata troppo spesso, come se fosse oro colato. Intanto bisogna osservare che Mussolini non intese mai cancellare di colpo l’esperienza del Regime per riallacciare direttamente la RSI a San Sepolcro, come se nel mezzo non ci fossero stati vent’anni di grandi realizzazioni e di epiche imprese. Al contrario, in uno dei suoi ultimi interventi pubblici, il Duce affermò esplicitamente che il Regime nella sua ultima fase stava andando verso una svolta rivoluzionaria, quale naturale sviluppo della sua esperienza, e che proprio la sensazione che questa svolta fosse ormai imminente aveva probabilmente indotto le forze conservatrici e reazionarie a coalizzarsi per rovesciarlo.
3) Nel tuo libro, accanto al fascismo e all’antifascismo, collochi la categoria del "non fascismo" per riferirti a quell’Italia rappresentata dalla monarchia, dall’esercito, dalla finanza, dalla cultura liberale – risorgimentale, che si inserì nel regime senza mai esserne assimilata. La visione storico – culturale dell’Italia del "non fascismo" trae la sua origine da una vocazione filo occidentale dell’Italia, in contrapposizione a quella centro europea che aveva la sua ragion d’essere nella politica estera e nella cultura del fascismo. Non sappiamo però spiegarci perché nel tuo libro non si faccia menzione di una vocazione peculiare e originale dell’Italia, cioè quella mediterranea, che tanta parte ha avuto nella nostra storia?
Può darsi che su questo punto io non mi sia espresso con la necessaria efficacia. A me sembra però di aver individuato nella politica estera italiana una linea di tendenza che parte dall’irredentismo e dall’interventismo - e quindi precede la nascita stessa del movimento fascista - e punta verso l’Africa e verso il Mediterraneo, movendo dall’Adriatico: Fiume come chiave dell’Adriatico, l’Adriatico come chiave del Mediterraneo, il Mediterraneo come chiave dell’Africa. Nasce di qui il risoluto atteggiamento dell’Italia nella questione fiumana, giuliana e dalmatica, atteggiamento che la porta a rompere con le Potenze occidentali insieme alle quali aveva condotto e vinto la Grande Guerra, e ad avvicinarsi al Centro Europa. Questa tendenza mediterranea e africana è costante. Essa si intreccia fino a identificarsi con le fasi in cui l’Italia si avvicina al Centro-Europa, e si attenua fino a scomparire nelle fasi in cui l’Italia si volge verso Occidente. E’ quasi inutile osservare che dopo la seconda guerra mondiale, l’Italia si è interamente fusa e identificata con l’Occidente, e non ricorda nemmeno più di aver avuto una politica di avvicinamento al Centro Europa, volta verso il Mediterraneo e l’Africa.
4) Se il Risorgimento rappresentò il momento storico in cui l’Italia pervenne alla sua unità nazionale, il fascismo ne costituì l’ideale proseguimento nella esaltazione dei valori nazionali e nella volontà di inserire l’Italia nell’ambito delle grandi potenze dell’epoca. Ci si domanda dunque se il fascismo non fornì agli italiani ragioni diverse ed ulteriori che costituissero nuovi scopi per "stare insieme" rispetto agli ideali unitari risorgimentali. Non a caso furono presenti nel Fascismo anche correnti anti risorgimentali. Tu stesso affermi, del resto, che il Fascismo rappresentò una soluzione nuova ed originale dei problemi politici e sociali del novecento.
Non credo che il fascismo abbia fornito agli italiani "nuovi scopi per stare insieme". Nel fascismo si concretò e venne rilanciata invece la stessa spinta che aveva condotto gli italiani a unirsi, e che sotto il suo impulso si impresse in due direzioni: verso la conquista per così dire "fisica" e territoriale di uno spazio imperiale, e verso la formulazione e il lancio di una soluzione nuova e originale dei problemi politici e sociali del mondo. Certo, nel loro insieme queste due dimensioni si presentarono come un unica e assoluta novità, la sola generata dal pensiero politico del XX secolo, che altrimenti si era torbidamente impigrito nella falsa antitesi tra liberaldemocrazia e marxismo. Questo fu il ruolo da protagonista che il fascismo conquistò per se stesso e per l’Italia, che lo perse insieme alla coscienza di sé il 25 luglio. La nascita della RSI le restituì l’uno e l’altra, ma solo per breve tempo, fino a quando la soverchiante potenza delle armate angloamericane mise termine alla sua vita, e insieme alla guerra. Per questo nel titolo del mio libro affermo che la Patria "visse due volte". La fragile e smarrita Italia d’oggi, "nata dalle resistenza e dall’antifascismo" non è in grado non diciamo di porsi, ma nemmeno di concepire la possibilità di una terza vita. Possibilità che tuttavia costituisce il solo spiraglio verso cui si può guardare, a mezzo secolo dalla "morte della Patria".
Da ITALICUM n. 9-10 -2004
LA MIA VITA, ITINERARIO MUSSOLINIANO A cura dell''Associazione culturale HELLAS
L'Associazione culturale HELLAS ti presenta la sua ultima produzione editoriale: "LA MIA VITA, ITINERARIO MUSSOLINIANO" Il volume consta di 264 pagine e rappresenta sia lo sforzo di trasmettere il pensiero di Mussolini, che il desiderio di propagarne l'immagine attraverso un cospicuo apparato iconografico. In questo bel libro vi è molto da leggere e tanto da ammirare, abbiamo infatti correlato all'interessante testo ben 90 pagine di grandiose foto e disegni inediti, altamente rappresentativi della leggendaria epopea del Capo del Fascismo. Ne è venuto fuori un libro le cui parole rimangono impresse nella mente e le cui immagini colpiscono dritto al cuore. Puoi richiedere questo libro direttamente, al prezzo speciale di 18 €, comprensivo di spese postali!   Per riceverlo a casa tua puoi: 1) inviare una e-mail all'indirizzo di posta elettronica    aldoresega@libero.it; 2) scrivere ad Associazione culturale HELLAS, via delle Caravelle 1/d-6 Perugia 3) telefonare al 348/5230422 DISPONIBILITA' LIMITATA !! 
Carlo Lagomarsino/Andrea Lombardi LO SBARCO DI ANZIO. L'operazione Shingle vista dai tedeschi: i documenti del diario di guerra della 14.Armee
200 pagine 20 pagine fuori testo di documenti, alcune foto in b/n , formato 17x24, Effepi Edizioni, Genova. € 21,00. 2004.
Per la prima volta è presentato integralmente in lingua italiana il diario di guerra della 14.Armee, impegnata dal gennaio al maggio del 1944 nel contrasto dello sbarco alleato ad Anzio-Nettuno. Integrano il diario il resoconto dei combattenti nella testa di ponte scritto da Albert Kesselring, schede delle Divisioni, dei Gruppi di Artiglieria, delle unità di Sturmgeschutz e Panzerjager che combatterono ad Anzio, schede biografiche dei comandanti tedeschi, ordini di battaglia e documenti inediti provenienti dai National Archives di Washington.
 
 
 
 
 

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