LE "RADIOSE GIORNATE" DELLA PRIMAVERA DEL '45                    


LUCIANA E GLI ALTRI SUL CAMION DELL’ULTIMO VIAGGIO
Francesco Specchia 
 
 
    Quella notte del 25 maggio del '45 Luciana Minardi non riusciva a dormire. Mica facile per una ragazzina di 16 anni mandare in malora il mondo per inseguire i propri ideali. Mica facile, a quell'età, arruolarsi fra i fascisti del battaglione Colleoni della Xa Mas. Mica facile trascinarsi un bagaglio di sogni spezzati da Imola alla Bassa veronese, tra i tuoni dei mortai e il fruscio delle divise sfilacciate, in attesa di vedere la prima linea. Eppure Luciana era lì, in una camerata buia di Cologna Veneta, raggomitolata su un materasso da trincea; a parlottare coi commilitoni di un gagliardetto strappato al nemico e della voglia di riabbracciare i suoi. D'un tratto irruppero una ventina di partigiani. Luciana, e altre persone incolpate solo di essere parenti di fascisti già prigionieri vennero caricati su un autocarro per essere «trattenute, trasportate a Imola e colà giudicate». Il camion, però, si fermò molto prima. A circa un chilometro, per l'esattezza, sull'argine del torrente Guà. Sulle acque del quale Luciana finì col galleggiare a pancia in giù, col saluto d'una mitragliata nella schiena. Al suo, s'aggiunsero altri cinque cadaveri, tra cui quelli di Iride Baldini col figlio appena diciassettenne Alessandro e di Speranza Ravaioli, anch'essa giovane madre di due esserini orfani anzitempo.
    La mattina di due giorni dopo la stessa banda raggiungeva una caserma degli Alleati a Verona e riusciva a farsi consegnare coll'inganno sedici detenuti politici, tutti provenienti da Cologna e tutti parenti delle vittime dell'eccidio precedente. I partigiani, chiacchierando con Augusto Baldini, ebbero perfino la spudoratezza di rincuorarlo sulla buona salute della moglie e del figlio che avevano massacrati qualche ora prima. Dei reclusi, trasportati a Imola sul solito «camion della morte», si salvarono in quattro (tra cui, per beffa del destino, proprio il padre di Luciana Minardi che ancora ignorava il martirio della figlia); gli altri subirono il linciaggio. Non senza prima aver obbligato un figlio (Pietro Trerè di anni 15) a frustare il padre e non senza torture e sevizie che il cronista preferisce risparmiare.
    Insomma un eccidio, quello di Cologna, che allarga il famigerato triangolo della morte emiliano al Veneto, ma che le cronache hanno sempre preferito tacere. Lo abbiamo scoperto scartabellando nell'emeroteca della Biblioteca Civica veronese, da un articoletto anonimo pubblicato il 3 giugno '45 da La Voce dell'Adige, quotidiano locale indipendente a tal punto da riuscire a svicolare - talora - tra i controlli preventivi che l'autorità alleata e il C.L.N. imponevano agli altri due giornali cittadini, Verona Libera, organo politico vero e proprio e il Corriere del Mattino.
    «L'assassinio di sei persone a Cologna Veneta - i particolari del misfatto» recita l'articolo in basso, appena tre colonne striminzite, nel testo, dopo l'asettica narrazione dei fatti, si legge inoltre: «... le indagini immediate dei corpi di polizia hanno permesso di assicurare alla giustizia gli autori, come risulterà dall'inchiesta, i complici di tale nefando delitto ...». Seguono i nomi e promessa «nei numeri dell'8-9 giugno di ritornare sull'orribile delitto e dare notizia dei primi risultati sull'interrogatorio dei colpevoli». Promessa mancata: quel successivo servizio, se mai scritto, non verrà mai pubblicato.
    Eppure dopo il duplice eccidio con epicentro il tranquillo paesello a due passi dall'Adige scoppiò il finimondo. Come mai la banda del «camion della morte» ottenne così facilmente - a guerra finita per giunta - la custodia dei prigionieri da parte dei responsabili della Commissione investigativa, Gianni Marini e il capitano dei carabinieri e il Direttore delle carceri Salvatore Daniele? Possibile che nel carcere veronese nessuno fosse a conoscenza del massacro che quegli stessi uomini avevano compiuto a Cologna? La risposta a queste domande fu prontamente cercata dal maggiore J.M. Blackwell, commissario provinciale delle forze alleate, che il 31 maggio scrive al C.L.N. provinciale, e per conoscenza al Prefetto, al pubblico ministero, alla Polizia partigiana, al Comando carabinieri e al Direttore delle carceri giudiziarie: «Com'è certo di vostra conoscenza ... due membri della Commissione investigativa del Pubblico ministero autorizzavano la consegna di sedici detenuti ... il gruppo di Imola non aveva alcun diritto di prelevare detti detenuti... perché accusato, nella notte precedente, di aver assassinato sei persone a Cologna Veneta ...»
    E con indignazione generale, in vista della grande responsabilità, i due membri sono sospesi dall'incarico, e s'attiva una commissione d'inchiesta. Che naturalmente, «ha avuto esito negativo», con tante scuse all'onestà, al coraggio, al «senso del dovere del combattente la guerra di liberazione». Degli assassini si perdono le tracce. E si perdono le tracce anche di altri delitti nel Veneto ufficialmente ignorati, nonostante il divieto assoluto di esecuzioni sommarie: come la strage di Schio (6 luglio del ‘45) sempre a Verona, del federale Sandro Bonamici, «... fascista convinto che però pare non abbia fatto del male ad alcuno ... ». Le pagine della storia, anche se vergate con sangue di innocenti, le scrivono i vincitori. E quando qualcuno dei sopravvissuti partigiani veronesi si ricorda il massacro di Cologna, cala un velo d'imbarazzante omertà. Un muro di gomma con cui si è scontrato sia lo storico Antonio Serena (solo nel suo libro I giorni di Caino, ed. Panda, 1990, troviamo menzione dei fatti di Cologna) sia il redattore - che vuole rimanere anonimo - dell'inchiesta trovò parecchi ostacoli, ma scavò in una piaga ancora aperta.
    Il Nord Est premiracolato dal boom fu, in realtà, quasi come in Emilia, culla d'eccidi (il processo al famigerato gruppo paramilitare «Volante Rossa», si svolse, ad esempio, nel '51 proprio qui), spessissimo di color vermiglio.
 
 
IL GIORNALE Quotidiano.14 Novembre1996 

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