LA II GUERRA MONDIALE - III PARTE   
Riportiamo la parte principale dell'inserto uscito su AREA N. 54, GENNAIO 2001, completo di bibliografia tradizionale e di "sitografia".
Gli inserti, a cura dello storico Marco Cimmino, fanno parte di una serie pubblicata mensilmente su AREA, per fornire uno strumento di aggiornamento sul '900 per le scuole dell'obbligo. L'inserto originale, pubblicato su AREA, è completo di ricca iconografia, apparato didattico compresi test di autovalutazione con soluzioni, suggerimenti di temi da svolgere, etc. 
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DA STALINGRADO A HIROSHIMA 
 
    Se il 1942 rappresentò il momento di maggior espansione territoriale delle forze dell’Asse, con il 1943 esse cominciarono, seppure non sempre in maniera clamorosa e con qualche ribaltamento di fronte, inesorabilmente a ritirarsi in tutti gli scenari della guerra.
    Dopo la resa di Paulus a Stalingrado (2 febbraio 1943), sul fronte russo le truppe sovietiche avanzarono decisamente, conquistando Kursk, Rostov e Kharkov; il 25 di febbraio, Manstein scatenò una controffensiva nel saliente conquistato, riprendendo, il 18 marzo, Kharkov e Bielgorod; fino al luglio del 1943, il fronte russo sarebbe rimasto stabile sulla linea Leningrado/Veliki-Luki/Orel/Kursk/Taganrog.
    In Africa settentrionale, dopo lo sfondamento di El Alamein e l’ultimo tentativo di riscossa dell’Afrika Korps a Kasserine (14-22 febbraio), appariva chiaro che la situazione stesse precipitando, tant’è che, ai primi di marzo, Hitler richiamò Rommel in Germania, per evitargli l’umiliazione della sconfitta; Patton e Montgomery, che guidavano le forze alleate provenienti rispettivamente da Ovest e da Est, si congiunsero a El-Qattara l’8 aprile: un mese dopo (12 maggio), le ultime truppe italo-tedesche in Nordafrica avrebbero capitolato a Capo Bon.
    Anche sul fronte del Pacifico le forze dell’Asse subirono un grave rovescio, anche se le perdite assommarono, nella circostanza, ad un solo uomo: il 18 aprile, una squadriglia di Lightning americani, guidati da un’intercettazione dei servizi segreti, abbatterono l’aereo su cui viaggiava l’ammiraglio Yamamoto; con lui moriva un eccellente stratega, ma anche l’unico uomo degli alti comandi nipponici che fosse dotato di un grande realismo e di una chiara visione dell’andamento del conflitto: si trattò di una perdita gravissima per il Sol Levante e che avrebbe causato molti guai al Giappone.
    Il 1943 segnò, inoltre, l’inizio della campagna di distruzione sistematica della Germania per mezzo di incursioni aeree; in preparazione allo sbarco sul suolo francese, la RAF e l’USAAF attaccarono scientificamente i centri industriali e i porti tedeschi, adottando la tecnica della divisione dei compiti: gli americani colpivano gli obiettivi di giorno, con i loro B17 e B24, mentre i Lancaster e gli Stirling inglesi attaccavano di notte, in formazioni sempre più massicce, che spesso superavano i mille velivoli.
    Non era ancora il sistema dell’"Area bombing", cioè del bombardamento a tappeto indiscriminato, ma ne era certamente il preludio; tutto ciò era permesso dall’enorme superiorità di mezzi che faceva pendere decisamente la bilancia dalla parte degli Alleati; la caccia tedesca doveva misurarsi con formazioni sempre più compatte di incursori e con decine di migliaia di mitragliere pesanti, che battevano il cielo intorno ai quadrimotori.
    L’industria bellica tedesca, comunque, compì sforzi che hanno del prodigioso, nel periodo 1943-44, moltiplicando il numero di aerei e di carri armati che uscivano dalle fabbriche; tuttavia, il divario non poteva che aumentare continuamente, tanto che, al tempo dello sbarco in Normandia (6 giugno 1944), gli Alleati erano padroni incontrastati dei cieli, nonostante la comparsa dei primi caccia tedeschi a reazione, i Me 262.
    Ancora più evidente era la sproporzione di mezzi tra gli angloamericani e la Regia Aeronautica, che si immolò letteralmente, prima contendendo al nemico i cieli d’Africa e del Mediterraneo e poi quelli dell’Italia, in una lenta consunzione di uomini e mezzi.
    Nel luglio del 1943, infatti, gli angloamericani erano sbarcati in Sicilia, conquistando il primo lembo d’Europa; altri sbarchi, ben più rilevanti, sarebbero seguiti, ma la Sicilia fu, in un certo senso, una prova generale delle reali capacità difensive della fortezza europea.
    Le truppe italiane opposero poco più di una resistenza simbolica, un po’ per l’inverosimile sproporzione di mezzi, un po’ per la sensazione che, ormai, tutto stesse andando a rotoli (il 25 luglio, il MCF avrebbe approvato l’"Ordine del giorno Grandi", che esautorava Mussolini) e che la cosa migliore fosse concludere le ostilità il più in fretta possibile.
    Ben diverso fu l’atteggiamento delle truppe germaniche, che, soprattutto nell’interno dell’isola, impegnarono duramente le truppe alleate.
    Col 25 luglio e con l’arresto del Duce, si può dire che ebbe inizio quel processo di scollamento e poi di aperto conflitto che avrebbe diviso il Paese e causato la Guerra Civile italiana; l’atteggiamento del maresciallo Badoglio, subentrato a Mussolini nella carica di capo del Governo, alimentò le incertezze nei nostri soldati: da una parte, era evidente che Badoglio mirava alla pace e, forse, ad un repentino cambio di schieramento, ma, dall’altra, per tenere buono l’alleato germanico (che aveva mangiato da tempo la foglia), egli aveva proclamato, già il 28 luglio, il proseguimento della guerra al fianco della Germania.
    Si preparava l’immensa tragedia dell’8 settembre, causa di tanti mali e di tanti drammi, i cui strascichi, ancora oggi, a sessant’anni di distanza, limitano la libertà politica e la serenità ideologica del nostro Paese; questa tragedia la dobbiamo, per buona parte, al responsabile principale di un’altra immensa tragedia, quella di Caporetto: il maresciallo Pietro Badoglio, massone piemontese e figura sciagurata della storia d’Italia.
    L’estate del ’43 vide anche il riprendere delle iniziative ad Est; nel luglio, i sovietici respinsero un tentativo germanico a Kursk ed attaccarono con vigore a Viazma, riuscendo, agli inizi d’agosto, a sfondare il fronte, riconquistare Kharkov e puntare direttamente al Dniepr; mentre gli Alleati completavano l’occupazione della Sicilia e Roma veniva dichiarata "città aperta"; intanto, i pozzi petroliferi di Ploesti, fondamentali per il rifornimento della Germania, venivano pesantemente bombardati, riducendo drasticamente la capacità di movimento dei Tedeschi.
    In settembre, i Russi presero Smolensk (24 settembre), seguirono il Dniepr fino a Kiev e conquistarono, infine, l’ex capitale il 6 novembre.
    Alla conferenza di Quebec (11-24 agosto), gli Alleati avevano approvato i piani per lo sbarco in Europa; da questo momento in poi, la Gran Bretagna avrebbe assistito ad un accumulo di mezzi senza precedenti, fino al fatidico D-Day.
    L’autunno del 1943 vide un susseguirsi di conferenze diplomatiche alleate: una volta compreso che la guerra era vinta e che era soltanto questione di tempo, Inghilterra, Usa ed Urss cominciavano a cercare di avvantaggiarsi nell’inevitabile spartizione; in ottobre vi fu la Conferenza di Mosca, in novembre quella del Cairo e la ben più importante Conferenza di Teheran cui presero parte i tre plenipotenziari alleati: Stalin, Churchill e Roosevelt.
    Intanto, in seguito all’armistizio dell’8 settembre, di cui ci occuperemo in un prossimo inserto, Mussolini, dopo la sua liberazione dal Gran Sasso e il suo ricovero in Germania, aveva costituito, nel nord del Paese, un governo repubblicano, sostenuto dai Tedeschi, la Repubblica Sociale Italiana (23 settembre).
    La contromossa di Badoglio fu quella di dichiarare guerra all’ex alleato germanico (13 ottobre), ribaltando completamente la posizione dell’Italia monarchica rispetto all’inizio del conflitto.
    Mussolini, il 3 novembre, fece arrestare il genero, Galeazzo Ciano, che avrebbe affrontato il processo di Verona e la fucilazione, insieme ad altri gerarchi firmatari dell’OdG "Grandi"(12 gennaio 1944).
    La fine del 1943 trovò gli Alleati in piena offensiva, con i Russi che avevano definitivamente riconquistato Korosten, più volte presa e perduta dai contendenti, e con gli Americani che sbarcavano in Nuova Britannia e risalivano lentamente la Penisola Italiana, arrestandosi di fronte alla linea Gustav, che rappresentava il caposaldo invernale tedesco.
    Il 22 gennaio del 1944, gli Alleati sbarcarono ad Anzio, a sud di Roma, cercando di superare il cul de sac rappresentato da Cassino, dove le loro truppe si dissanguavano senza riuscire a passare; proprio mentre infuriava la battaglia di Cassino, il comandante in capo tedesco in Italia, Kesselring, scatenò un’offensiva contro la testa di ponte di Anzio (17-29 febbraio), che, però, fallì.
    Sul fronte orientale, i Russi stavano ormai avanzando in tutti i settori; il 14 gennaio iniziarono una poderosa offensiva per liberare Leningrado dall’assedio, il 22 febbraio l’Armata Rossa entrava a Krivoi-Rog, il 26 marzo i Russi raggiungevano il Prut e la frontiera rumena.
    Questa campagna invernale logorò terribilmente le forze tedesche, che, ormai vedevano assottigliarsi spaventosamente le proprie risorse, in particolare di mezzi corazzati, aerei e carburante; ma anche il salasso umano era terribile.
    Mentre gli Americani bombardavano Budapest , ora sotto il diretto controllo dei Tedeschi e delle Croci Frecciate, e Bucarest (aprile ’44), le truppe sovietiche conquistavano Ternopol (5 aprile), Odessa (10 aprile) e, infine, Sebastopoli (9 maggio), quando si concluse il ciclo operativo invernale.
    Da ogni parte del mondo, stavano, intanto, affluendo truppe per attaccare la fortezza Europa: i 450.000 Francesi della neonata Armée, i Brasiliani, i Palestinesi, gli Anzacs, i Polacchi, gli Indiani; si avvicinava il momento tanto temuto da Hitler, quello dell’attacco al Vallo Atlantico.
    In realtà, il sistema difensivo della costa francese era tutt’altro che insuperabile: soltanto nella zona del Pas de Calais la fascia costiera di batterie a lunga gittata, di blockhaus e di trappole anticarro ed antinave era efficiente; per il resto, le difese erano poco profonde e piuttosto approssimative, data la scarsità di riserve (in pratica, due sole divisioni panzer) e la precarietà degli apprestamenti fissi.
    Hitler, è notorio, non credeva all’eventualità di uno sbarco sulle coste normanne, e nemmeno le comunicazioni del suo ufficio informazioni sui preparativi alleati valsero a smuoverlo dall’idea che l’azione principale sarebbe avvenuta sulle basse coste del nord.
    Preda delle sue allucinazioni, che si sarebbero acuite in seguito all’attentato di Rastenburg del 20 luglio, il Fuehrer non si fidava dei propri generali ed era sempre più spesso preda di un delirio strategico, in cui spostava divisioni inesistenti e si affidava alle proprie divinazioni astrologiche e al proprio intuito.
    Incredibilmente, perciò, i Tedeschi vennero presi alla sprovvista dallo sbarco in Normandia, che, altrimenti, avrebbe potuto, per come sono poi andate le cose, risolversi in un disastro per le pur strapotenti forze alleate.
    Intanto, nell’immediata vigilia di Overlord, gli Americani progredivano nel Pacifico, sbarcando in Nuova Guinea a Saidor (2 gennaio), nelle Marshall (31 gennaio), nelle Caroline (16 febbraio) e riconquistando Wake (15 maggio) e Biak (27 maggio).
In Italia, il 17 maggio cadde Cassino e, una settimana più tardi, la 5a armata del generale Clark si ricongiunse con le truppe sbarcate ad Anzio: la linea Gustav era caduta.
    E’ naturale, però, che il 1944 risulti dominato dall’evento chiave di tutta la guerra, ossia lo sbarco in Normandia.
    All’alba del 6 giugno 1944, si presentò davanti alle coste francesi un’armata d’invasione forte di 4.126 navi e di più di 15.000 aerei, che trasportavano la 1a armata Usa e la 2a britannica: la superiorità aerea alleata era dell’ordine di 50 a 1!
    Lo sbarco avvenne al mattino, con la bassa marea, per evidenziare gli ostacoli antisbarco sommersi: anche questo prese in contropiede il comandante delle forze di difesa tedesche, Rommel.
    Le spiagge su cui sbarcarono gli Americani (Utah e Omaha) e quelle di competenza britannica e canadese (Gold, Juno e Sword), nella zona tra Caen e il Cotentin, entrarono per sempre nella storia; il cinema, oltre che la storiografia, ha contribuito ad alimentarne la leggenda ("Il giorno più lungo", "Salvate il soldato Ryan"), cui, pertanto, non aggiungeremo altre parole.
    L’8 giugno, gli Americani erano a Bayeux, il 12 a Carentan, il 26 si arrendeva Cherbourg.
    Durante il mese di Luglio, le città normanne caddero una dopo l’altra, mentre Rommel rimaneva gravemente ferito in un attacco aereo alla sua vettura; Caen era caduta il 9 luglio, il 19 Saint-Lô, il 30 Avranches, che avrebbe permesso uno sfondamento, che poi avvenne, in direzione della linea Somme-Aisne-Marna.
    Nel frattempo, anche i Russi non erano rimasti con le mani in mano: le valorosissime truppe finlandesi avevano alla fine dovuto abbandonare la linea Mannerheim sotto gli attacchi dell’Armata Rossa (20 giugno); nel nord, i sovietici avevano invaso la Bielorussia ed i Paesi Baltici, erano penetrati in suolo polacco all’inizio di luglio e, nel breve volgere del mese, si erano presentati in Prussia orientale, minacciando direttamente il territorio del Reich.
    La guerra, ormai, si combatteva in Germania, con tutte le conseguenze, anche psicologiche, che questo poteva comportare; incredibilmente, però, il popolo tedesco, pur presagendo l’inevitabile disfatta, non manifestava segni di cedimento nella sua fede per il Fuehrer, e, per la stragrande maggioranza, avrebbe conservato questa fede incrollabile fino alla fine.
    Mentre l’offensiva in Polonia si arrestava e Varsavia insorgeva sotto la guida del generale polacco Bor, la Romania, invasa per buona parte dalle truppe sovietiche, si arrendeva; il re fece arrestare il dittatore Antonescu ed i Tedeschi persero un altro alleato.
    Per quanto riguarda il nostro Paese, rinviando l’analisi della guerra civile ad un prossimo inserto, insieme ad altri temi storici particolarmente delicati della seconda guerra mondiale, come la Shoà, dobbiamo segnalare il fatto che, il 15 luglio, il governo si era reinsediato a Roma , dando l’impressione che, in almeno metà dell’Italia, ci si avviasse verso una difficile normalizzazione; la strada della pace era, però, ancora lunga: dopo la caduta di Livorno, di Firenze e di Pisa (19 luglio, 16 e 19 agosto), i Tedeschi si organizzarono su una nuova linea difensiva invernale, la Linea Gotica, che attraversava l’appennino tra Toscana ed Emilia-Romagna.
    Nel frattempo, erano affluite al fronte alcune aliquote di truppe italiane repubblicane, addestrate e riorganizzate in Germania, mentre continuava a combattere valorosamente la Xa flottiglia MAS del comandante Borghese, cui affluivano in continuazione volontari, facendone lievitare gli effettivi in maniera esorbitante.
    Anche l’estate del 1944 segnò, infine, una serie di progressi ulteriori degli Americani e dei Britannici nel Pacifico: nelle Marianne, in Nuova Guinea e in Birmania, i Giapponesi subirono duri rovesci e dovettero abbandonare Guam, il 10 agosto.
    Dopo le difficoltà iniziali di Overlord, determinate, prevalentemente, dalla scarsità di porti cui fare affluire l’enorme massa di materiali e mezzi per rifornire le proprie armate, ora gli Alleati, proseguivano spediti in territorio francese.
    Il 15 agosto vi era stato un notevole sbarco franco-americano in Provenza, che aveva creato un secondo fronte, stavolta meridionale, per le truppe che difendevano la Germania da occidente; il 19 dello stesso mese Parigi era insorta e, il 25, vi erano entrate le truppe alleate, salutate da un tripudio straordinario.
    Il fatto che, insieme agli angloamericani si trovassero gli Sherman di Leclerc era costato quasi un incidente diplomatico tra Eisenhower e l’arcigno generale De Gaulle, che, lungo tutta la guerra, aveva cercato di imporsi come unico interlocutore francese degli Alleati, riuscendovi in virtù più della sua arroganza che di una sua reale rappresentatività del popolo francese: erano i primi segnali di come De Gaulle avrebbe interpretato il concetto di Grandeur, una volta capo della Francia.
    Per farla breve, comunque, entro il mese di settembre, tutta la Francia e buona parte del Belgio erano stati occupati dagli angloamericani, le cui forze, provenienti dalla Normandia e dalla Provenza, si erano riunite, come le ganasce di un’immensa tenaglia, a Châtillon-sur-Seine, il 12 settembre.
    Le truppe tedesche, però, guidate da Model, che aveva sostituito Kluge, suicidatosi dopo l’attentato del 20 luglio, si erano per buona parte sottratte alla trappola; si trattava, tuttavia, di un esercito sconfitto, deluso e praticamente disarmato, pallido fantasma di quello che aveva percorso, in senso inverso, le stesse strade nel 1940.
    In quello stesso settembre del 1944, la Bulgaria cadeva e chiedeva l’armistizio ai sovietici, dichiarando guerra alla Germania (7-11 settembre), mentre le truppe russe e quelle jugoslave del maresciallo Tito si congiungevano a Negotin, il 15: il cerchio continuava a chiudersi sul Reich.
    Ai primi di ottobre, gli Americani forzarono la linea Sigfrido, ad Aquisgrana, l’Ungheria venne invasa dai sovietici, mentre il generale Bor, a Varsavia si dovette arrendere ai Tedeschi; il 20 ottobre Tito entrò a Belgrado: il 13 dicembre Tito annunciò che la futura repubblica jugoslava sarebbe stata una federazione di sei stati; uno di questi stati comprendeva l’Istria e buona parte della Venezia Giulia, da cui già da tempo si stavano eliminando gli elementi nazionali italiani: si stava delineando il dramma delle foibe, il cui primo atto si era visto dopo l’8 settembre; anche di questo parleremo diffusamente nell’inserto sui temi scottanti della seconda guerra mondiale.
    La fine del mese vide anche una pesante sconfitta aeronavale giapponese nel pacifico, con la battaglia di Leyte, in cui comparvero per la prima volta in numero rilevante gli aerei suicidi, i Kamikaze; quanto a Leyte, l’accanita resistenza giapponese cessò del tutto a dicembre; in pratica, gli unici settori in cui le truppe del Tenno non fossero in aperta crisi restavano la Cina e l’Indocina, dove le loro offensive raggiunsero buoni risultati, sia contro Ciang Kai-Scek che contro gli Americani, per il resto, la superiorità aeronavale degli Usa era troppo marcata per lasciare spazio a qualche speranza.
    La guerra, di fatto, avrebbe potuto finire qui, almeno per quanto riguarda il fronte occidentale: ben presto, le avanguardie di Patton avrebbero, incredibilmente, trovato un ponte intatto sul Reno, a Remagen (6 marzo 1945) , e di lì la porta era praticamente spalancata fino a Berlino, giacchè non esistevano tra il Reno e la capitale forze consistenti, fatte salve le divisioni corazzate di Rundstedt, celate nella foresta delle Ardenne, ma quelle sarebbero dovute servire a tutt’altro.
    A questo si opposero due eventi: il primo fu la scelta, tutta politica, degli Americani di lasciare ai Sovietici l’onore della conquista della capitale del Reich, ennesima prova del fascino incomprensibile che Stalin esercitava su Roosevelt.
    Il secondo dipese esclusivamente dai Tedeschi e dalla loro disperata volontà di non arrendersi.
    Il 16 dicembre, infatti, con scorte di carburante decisamente irrisorie e confidando in un fattore aleatorio come il cattivo tempo che costringesse a terra gli aerei alleati, i carri Tiger germanici sbucarono all’improvviso nelle linee americane, seminando lo scompiglio: era la battaglia delle Ardenne, l’ultimo grande sforzo offensivo di Hitler.
    In verità, nei piani del Fuehrer questo doveva essere un secondo attacco alla Francia, con esiti disastrosi e, forse, definitivi per le truppe sbarcate in Normandia, che dovevano essere tagliate fuori; ma, nella realtà, l’offensiva delle Ardenne avrebbe, al massimo, potuto scompigliare il fianco settentrionale delle armate Usa: di fatto, i carri tedeschi si ingolfarono intorno alla piazzaforte di Bastogne, senza neppure superare la Mosa.
    Il 28 dicembre, gli Americani liberarono Bastogne dall’assedio e a metà di gennaio 1945 l’offensiva era stata del tutto rintuzzata, con la distruzione dei reparti corazzati nazisti.
    Bisogna dire che le truppe germaniche a sud di Strasburgo se la stavano cavando meglio, tuttavia, in pratica, a febbraio, gli alleati costeggiavano il Reno per quasi tutto il suo percorso, fino alla conquista di Colonia e, come già detto, di Remagen, ai primi di marzo.
    Naturalmente, in tutto questo periodo, non era passato un solo giorno senza che massicce formazioni di bombardieri avessero scaricato migliaia di tonnellate di bombe sul Reich: le città tedesche, ormai, sembravano città lunari, con scheletri di case smozzicate che sorgevano in un mare di macerie.
    Tra tutte, citiamo Dresda, che, pur non rappresentando un bersaglio strategico, ed essendo stata, per questo motivo, fino ad allora risparmiata (le fabbriche di strumenti ottici si trovavano fuori del perimetro urbano, ed erano già state colpite), venne attaccata a più riprese, tra il 13 ed il 14 marzo.
    Nella città si trovavano almeno 500.000 profughi, provenienti dalla Slesia e fuggiti di fronte alla ferocia sovietica; su di loro e sugli abitanti dell’antica capitale sassone, alle 22 del 13 marzo cominciano a piovere bombe da due tonnellate, destinate soprattutto ad infrangere i vetri su di un vasto raggio, per facilitare il propagarsi degli incendi.
    Tre ondate di bombardieri Lancaster e B17 (più di 1.100 in tutto) sganciarono sulla città 650.000 bombe incendiarie, trasformando Dresda in un ciclone di fuoco che si autoalimentava per la depressione barometrica; nessuno scampo per gli abitanti, soffocati nei rifugi o arsi per strada, nessuna possibilità di soccorso, perché i cacciabombardieri americani mitragliavano senza pietà i carri dei pompieri che provenivano dalle città vicine: Dresda fu un episodio di una ferocia inaudita in una guerra che era stata inauditamente feroce, e causò circa 150.000 vittime, cioè più di qualunque altro bombardamento della guerra, compreso quello di Hiroshima!
    Perfino il parlamento britannico insorse per questo atto di barbarie; ma nessuno ebbe il coraggio di dire che il bombardamento era stato espressamente chiesto dai sovietici, per scompigliare le retrovie del fronte orientale.
    Il quale fronte, ormai, stava a sua volta crollando: il 13 febbraio Budapest si arrendeva, ai primi di marzo l’Armata Rossa entrò in Austria e nella Germania orientale, nello stesso momento cadeva la Pomerania; un poco alla volta, le forze sovietiche stringevano Berlino, cui Eisenhower aveva ufficialmente rinunciato, in una morsa.
    Da questo momento in poi, ogni giorno segnò uno sviluppo deciso verso la fine del Reich: vediamo di riassumere gli avvenimenti in modo sintetico.
    Il 10 aprile cadde Königsberg, il 12, il giorno della morte del presidente americano Roosevelt, cui succedette Truman, i Russi entrarono a Vienna, il 16 iniziò l’offensiva congiunta di Zukov e di Konev contro Berlino, il 17 si arresero le truppe della Ruhr, il 19 gli Alleati, in Italia, forzarono la linea gotica e presero Bologna, il 27 veniva assassinato Mussolini, il 29 i Francesi che avevano attaccato da nord e gli Alleati si congiunsero, a Torino, il 30 aprile Hitler si suicidava nel bunker della cancelleria, insieme alla moglie, Eva e, il 7 maggio, a Reims, le truppe tedesche si arresero senza condizioni.
    La guerra in Europa si concludeva, con il suo strascico di drammi e di polemiche: alla fine, gli Americani avevano commesso l’errore di assecondare troppo Stalin, e questo si sarebbe ritorto contro di loro.
    Le conferenze di Yalta (4-12 febbraio) e di Potsdam (17 luglio), in pratica, sancirono la divisione del mondo in due, consegnando una parte dell’Europa all’incubo comunista.
    Churchill, sconfitto dal laburista Attlee alle elezioni di luglio 1945, riferendosi al suo sedicente alleato sovietico, commentò amaramente: "Abbiamo ammazzato il porco sbagliato!", il che la dice lunga sulla sua opinione riguardo al tiranno russo.
    Intanto, anche la sorte del Giappone si stava compiendo.
    In gennaio, MacArthur era sbarcato a Luzon, il 17 febbraio Mac era tornato, come aveva promesso nel 1942, a Corregidor e il 25 era entrato a Manila; anche le città nipponiche subirono, a partire dal marzo 1945, pesanti incursioni aeree, favorite dalla quasi completa distruzione dell’aviazione del Sol Levante: Tokio, Osaka, Yokohama, Nagoia e Kabè pagarono un duro prezzo; tra le città risparmiate, Hiroshima e Nagasaki avevano un appuntamento con il destino.
    Il 16 marzo, cadde Iwo Jima e il 1 aprile gli Americani sbarcarono a Okinawa: la guerra ora minacciava direttamente l’arcipelago giapponese.
    Mentre, una ad una, le isole del Pacifico cadevano, da Bougainville al Borneo, gli scienziati americani stavano ultimando i test per la prima esplosione atomica della storia: questa si realizzò ad Alamogordo, nel deserto del New Mexico, il 16 luglio del 1945, segnando l’inizio dell’era nucleare.
    Il 6 ed il 9 agosto, due fratellini della bomba di Alamogordo, Little Boy e Fat Man, consegnavano Hiroshima e Nagasaki alla storia ed i loro abitanti all’olocausto atomico; il 15 agosto, l’imperatore ordinava di cessare ogni ostilità.
    Il 2 settembre, , alla fonda nella rada di Tokio, con la capitolazione giapponese sul ponte della corazzata Missouri, finiva la seconda guerra mondiale.
    Le vittime sono state calcolate in circa 40.000.000, anche se il loro vero numero non sarà mai calcolato.
    Certamente incalcolabile è la mostruosa rovina, fisica e morale, che questo conflitto ha procurato all'umanità, e all'Europa, in particolare; senza contare che moltissime questioni legate alla guerra non sono affatto state risolte dalla cessazione delle ostilità, a partire dal processo di Norimberga.
    Dei problemi ancora fonte di discussione, o, almeno, dei più importanti, cercheremo di occuparci nel prossimo inserto; per ora, ci preme ricordare a chi ci critica perché il nostro lavoro appare troppo o troppo poco schierato, che gli storici hanno il dovere di schierarsi da una sola parte: da quella della verità, il più possibile oggettiva e verificabile.
    Dovendo prossimamente parlare di Resistenza e Repubblica Sociale, di Olocausto e di Foibe, è meglio ricordarlo a chi avrà la bontà di leggere le nostre note. 

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