LA II GUERRA MONDIALE - IV PARTE      
Riportiamo la parte principale dell'inserto uscito su AREA N. 55, FEBBRAIO 2001, completo di bibliografia tradizionale e di "sitografia".
Gli inserti, a cura dello storico Marco Cimmino, fanno parte di una serie pubblicata mensilmente su AREA, per fornire uno strumento di aggiornamento sul '900 per le scuole dell'obbligo. L'inserto originale, pubblicato su AREA, è completo di ricca iconografia, apparato didattico compresi test di autovalutazione con soluzioni, suggerimenti di temi da svolgere, etc. 
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LA SPORCA GUERRA
 
    Intendiamoci, la guerra non è mai una cosa pulita; tuttavia, fino alla Grande Guerra sono sopravvissute, all’interno dei conflitti, delle regole, che se non possono essere definite cavalleresche, almeno garantivano alcune categorie. 
    È vero che, anche nella storia meno recente d’Europa, le popolazioni civili sono state spessissimo vittime di atrocità, come il diritto di saccheggio o il massacro sistematico; si pensi alla Guerra dei Trent'anni, che, in pratica, spopolò interi Lander tedeschi, o a quanto accadeva alle regioni in cui combattevano le truppe mercenarie, per rendersi conto di quello che sto dicendo. 
    Tuttavia, la questione finale era sempre tra soldati; le sofferenze dei civili facevano parte di quello che gli americani, col loro linguaggio militare asettico, oggi chiamerebbero "rischio sostenibile". 
    La Seconda guerra mondiale non appartenne a questa categoria di conflitti: per la prima volta non si fronteggiavano due eserciti, ma due fette d’umanità, fino alla distruzione finale dell’una o dell’altra. 
    L’ultima guerra fu una guerra totale non soltanto perché riguardò la totalità delle popolazioni, impegnate a produrre armi o sottoposte ad attacchi provenienti da distanze prima invalicabili: essa fu totale soprattutto perché l’obiettivo dei contendenti non fu quello di vincere per poter, poi, sedere al tavolo della pace, bensì quello di cancellare l’avversario dalla faccia della terra. 
    Semplificando all’eccesso, Hitler ripropose quello che era il tema delle prime guerre, fatte in età preistorica, tra tribù limitrofe: l’eliminazione del rivale per possederne lo spazio vitale. Il risultato di un scontro ideologicamente preistorico, ma combattuto con le armi del XX secolo, è sotto gli occhi di tutti; anche se, per la verità, resterebbe da chiedersi come si sia potuti arrivare a questo, a soli vent’anni da una carneficina spaventosa come quella della Prima guerra mondiale. 
    Qui lo storico potrebbe dare mille risposte, ma, forse, la risposta più verosimile è quella che ha dato non uno storico, ma un poeta, «…sei quello della pietra e della fionda!…Uomo del mio tempo…», e che è riposta nella coscienza di ognuno. 
    La storia dovrebbe servire a capire il perché di questi orrori, ma, anche e soprattutto, a scongiurarli: negarla (è bene che lo sappiano quelli che fingono di non sapere, ma sanno!) significa un poco avallare certe tragedie. 
    Noi, oggi, certo pedestremente, come è nostro costume, cercheremo di scavare con un bastoncino nella mota, per portare a galla almeno una briciola di quelle verità che per tanto tempo sono state nascoste alla gente, da storici cui, oltre a titoli accademici usurpati, non rimane che la propria vergogna. 
    Per ultimo, sia chiaro che questo inserto, che parla solo di eventi "controcorrente", non si sogna nemmeno di confutare la storia arcinota: semplicemente, parla solo di quelle cose che, essendo assai meno note, possono valere ad integrarla. 
    Questo non significa scrivere un’altra storia di parte: di storie parziali ne abbiamo abbastanza! 
 
Il mondo coventrizzato 
 
    Il 26 aprile 1937, la legione Kondor tedesca, durante la Guerra civile spagnola, colpì duramente la cittadina di Guernica, destinata, altrimenti, ad un sicuro anonimato. 
    Guernica divenne subito il simbolo della barbarie germanica, e Pablo Picasso, che aveva da parte un grande quadro che sarebbe servito, con qualche aggiustamento, per una raffigurazione cubista di un mattatoio, si affrettò a ribattezzarlo Guernica, dando origine ad uno dei tanti miti sbilenchi della nostra Era. 
    Oggi, alla luce dei documenti, sembra che, in realtà, a Guernica vi fosse un importante comando repubblicano e, quindi, che quel bombardamento non fosse affatto gratuito, come per mezzo secolo si è sostenuto; ma la gente preferisce credere a quello che è bello credere, piuttosto che alla verità, che a volte può essere banale: il terrorismo aereo, nell’immaginario collettivo, comincia a Guernica. 
    Il crucco perde il pelo, ma non il vizio: durante la Battaglia d’Inghilterra, la cittadina di Coventry venne pesantemente bombardata, tanto che Mussolini coniò il termine "coventrizzare" ad indicare la cancellazione geografica di un centro abitato. 
    Se il crucco non perde il vizio, bisogna dire che John Bull ed il suo amico Uncle Sam, sono sempre stati abilissimi a fare propri i vizi altrui: esaurita la stagione dei bombardamenti sull’Inghilterra, formazioni sempre più poderose hanno colpito a tappeto bersagli civili in Germania ed in Italia: di Dresda abbiamo già detto, ma anche Amburgo ebbe modo di apprezzare il fosforo liquido alleato, con i suoi 100.000 e più arsi vivi. 
    A distanza di giorni dal bombardamento, i sopravvissuti, costretti a sguazzare nei canali, perché appena uscivano dall’acqua ricominciavano a bruciare, furono pietosamente uccisi con un colpo alla testa da appositi reparti militari, che si aggiravano come monatti in un deserto allucinante e calcinato. 
    Le azioni del comando bombardieri sono state spesso delle vere e proprie prove tecniche di genocidio, al pari delle orripilanti imprese tedesche sul fronte orientale: allora come oggi (si pensi ai bombardamenti della Serbia), la grande differenza tra i crimini "totalitari" e quelli "democratici" consisteva, soprattutto, nell’apparente asetticità, impersonalità, chirurgia delle operazioni. 
    Come dire: tutti colpevoli, nessun colpevole. 
    Perfino le bombe atomiche che colpirono il Giappone sono state una prova tecnica: stavolta, però, si trattava di una prova tecnica di "Guerra Fredda". I nipponici erano ormai sconfitti, assediati, affamati e quasi disarmati: era solo questione di tempo ed avrebbero capitolato. 
    Gli Usa, però, dovevano far sapere all’Urss (e nel modo più eclatante possibile) che possedevano il deterrente nucleare, e che non si azzardassero, perciò, i sovietici ad alzare troppo la voce: i testimonial di questa bella campagna pubblicitaria furono i lemuri di Hiroshima e Nagasaki. 
    Il manifesto pubblicitario più efficace di questa campagna di prevenzione è quello che mostra, sull’asfalto di un ponte, le ombre degli uomini vaporizzati dal Pikadon atomico. 
    Con questo, non si vuole affatto dimostrare che gli Alleati fossero dei cattivissimi al pari dei nazisti: è inutile che qualcuno, tra chi ci legge, cerchi di attribuirci valutazioni più adatte ai palcosenici del Maurizio Costanzo Show che ai consessi accademici; il senso della nostra storia è quello di cercare, una volta tanto, di raccontarla tutta: ognuno, poi, è libero di interpretare i fatti come crede: prima, però, li deve conoscere. 
    Sull’argomento del terrorismo contro le popolazioni civili la ferocia nazista è notoria: sarebbe ora che lo fosse anche quella degli altri. 
    Cambia poco, per una vittima, se chi ti uccide è un fucile o una bomba da 500 libbre; e se il tuo carnefice è uno spietato aguzzino in uniforme nera o un azzimato gentleman dello Shropshire con il foulard a pallini rossi e i baffi a scopettone. 
 
Ora e sempre, resistenza 
 
    Un argomento pressochè intoccabile della storiografia patria è stato, per almeno 50 anni, quello della Resistenza: perfino agli storiografi dichiaratamente di sinistra è stato imposto per molto tempo di trattare la vulgata resistenziale come si trattasse dei Rotoli della Legge: proibito discuterne, proibito esaminarne i documenti e, naturalmente, proibito azzardarne bilanci che non ottenessero il placet dei probiviri della democrazia. 
    D’altra parte, da un Pci che impose agli operai comunisti che erano andati a lavorare volontari nella sorella Yugoslavia e, al cambiare della politica di Tito, erano stati imprigionati per cinque anni, di fingere di avere serenamente lavorato perfino ai propri figli (e quelli obbedirono), non deve stupirci di nulla. 
    A tutela di questa religione laica vennero chiamati gli Istituti per lo studio della Resistenza, che oggi si chiamano Isrec; al loro interno, lavorano molti storici capaci e tante brave persone, ma, purtroppo, anche moltissimi ottusi arnesi di partito, senza titoli né meriti, se non quello della correttezza politica. Gli Isrec, anche se, di fatto, contano tra le proprie file solo elementi di "provata fede democratica", sono ospitati e finanziati dagli enti locali, di qualunque colore politico essi siano, cioè da noi, tanto per capirci. Negli archivi di questi istituti sono stati raccolti chilometri di nastri magnetici, con interviste a partigiani e testimoni della guerra civile; per chi, però, non fa parte della confraternita, va da sé, è piuttosto complicato accedere a questo materiale, ed è, quindi, altrettanto complicato fare della ricerca documentata. 
    Così il cerchio si chiude, e così funziona la disinformacija: io creo un istituto di ricerca, gli faccio raccogliere in regime di monopolio le fonti, così, quando qualche rompiscatole cerca di ficcare il naso in affari che non lo riguardano resterà a bocca asciutta, mentre, se a me servono pezze d’appoggio, ecco, come per magia, comparire vagonate di documenti; pas difficile, tout sommé
    In realtà, lasciando da parte discussioni che poco hanno di scientifico, agli occhi dello storico la guerra civile italiana non dovrebbe apparire granché diversa da quella spagnola o da quella americana: una guerra civile ha caratteristiche sue proprie, precise e facilmente identificabili. 
    Innanzi tutto, uno dei due contendenti, in una guerra civile, si investe di propria iniziativa del ruolo del poliziotto (nella guerra civile americana lo fece l’Unione, in quella spagnola i Franchisti), mentre l’altro fa il bandito. 
    Poi, in una guerra civile, si mescolano agli elementi ideologici o militari anche fattori diversi, come il campanilismo, le dispute personali o la religione. 
    Inoltre, nelle guerre civili, vi è sempre una resa dei conti, alla fine delle ostilità, che, spesso, è più drammatica della guerra stessa.
    Insomma, per farla breve: davanti alla storia le guerre civili si assomigliano un po’ tutte; dico questo facendo tesoro dei dettami degli stessi storici antigeneralisti, che predicano l’analisi non di singoli avvenimenti, ma di modelli duraturi: più duraturi di così! 
    La vera, grande particolarità che distingue la guerra civile italiana dalle altre, consiste nella anomala durata dei suoi effetti sulla vita civile del Paese. Dopo cinquantacinque anni dal 25 aprile, uno storico dovrebbe poter dichiarare definitivamente conclusa la guerra, e dedicarsi a qualcosa di più intelligente della diatriba. 
    Proviamo a scrivere in questa sede delle cose ovvie e banali, ma che, non si capisce per quale ragione, vengono, per solito, passate sotto silenzio. Prima di tutto, diciamo, ad uso delle future generazioni, che il termine "guerra civile", reintrodotto nel lessico storiografico da un bel saggio dell’inizio degli anni Novanta dello storico Claudio Pavone, era, in realtà, d’uso corrente negli anni della guerra. Fu il dopoguerra a cancellarlo dal vocabolario, presumibilmente allo scopo di favorire la diffusione di definizioni più evocative, quali "guerra di liberazione" o "guerra resistenziale": di fatto, il termine è una vox media, che non contiene valutazioni di merito, e, forse proprio per questo, cadde in disgrazia. 
    Aggiungiamo, sempre a beneficio dei giovani, che l’Italia, alla fine della Seconda guerra mondiale, ha firmato i trattati di Parigi (10 febbraio 1947) nello spazio riservato alle nazioni sconfitte; la favola bella del 25 aprile in cui si festeggia la vittoria della democrazia sulla tirannide è bella proprio perché è una favola: ancora oggi gli storici angloamericani si domandano cosa ci troviamo da festeggiare! 
    Qui si deve aggiungere che il contributo italiano alla "liberazione" è stato militarmente piuttosto ininfluente e che, ben più che dai partigiani, i tedeschi sono stati scacciati dagli Sherman neozelandesi e polacchi e dai Thunderbolt americani; tant’è che il peso politico della Resistenza, al di fuori dello scenario interno italiano, è stato prossimo allo zero. 
    Se dobbiamo trovare una figura che ha salvato il salvabile al tavolo delle trattative, non possiamo che riferirci ad un ex parlamentare austroungarico, rigorosamente anticomunista e fortemente cattolico: Alcide De Gasperi. 
    Altra è la vulgata, che distribuì patenti di resistente a milioni di persone, per avvalorare la teoria dell’esercito di popolo e della Repubblica nata dai valori della Resistenza: la Resistenza vera l’ha fatta, forse, la radice quadrata di quei milioni e, quanto ai suoi valori, la stragrande maggioranza degli italiani, allora come oggi, più che ai valori badava a riempirsi la pancia. 
    I combattenti nelle file della Resistenza, siano stati comunisti, badogliani, repubblicani, azionisti o cattolici, meritano, come chiunque rischi la vita per qualcosa in cui crede, il nostro rispetto; non così la solita valanga di manutengoli che accorre, a giochi fatti, ad aiutare il vincitore. 
    Dunque, facciamo un po’ di ordine, anche se, purtroppo, con una sintesi disperata. 
    Dopo l’8 settembre, l’esercito italiano si sfasciò: alcuni raggiunsero il Sud, dove si stava costituendo il Corpo Italiano di Liberazione (bravi soldati, ma, numericamente parlando, poca cosa); molti, in Albania, in Yugoslavia o in Grecia, si unirono ai partigiani; moltissimi si arresero ai tedeschi e vennero, perloppiù, internati in Germania; alcuni resistettero eroicamente, e la pagarono cara, come la divisione Acqui a Corfù e Cefalonia; la maggioranza era semplicemente sbandata, e cercava di raggiungere la propria casa, con abiti civili. 
    Le due scelte chiare, in questo primo convulso periodo, furono quella dei soldati che, stretti ai propri ufficiali, scelsero la macchia, per non tradire il proprio giuramento al Re, e quella di coloro i quali, ritenendo così di riscattare il disonore dell’Italia per quello che era da loro visto come un tradimento, entrarono nell’esercito repubblicano di Salò. 
    Tutto il resto rappresenta quella che Calvino chiamò la "zona grigia": una stragrande maggioranza che non scelse un bel niente, riservandosi di farlo quando gli eventi si fossero, in qualche modo, evoluti in maniera inequivocabile. 
    I primi resistenti, perciò, non furono né cattolici né comunisti, ma, semplicemente, soldati italiani, cui si aggiunse qualche raro civile, che non era sempre visto di buon occhio. Ovviamente, questi soldati avevano le proprie idee politiche; tuttavia, essi non erano, per così dire, schierati in maniera decisa e raggruppati per consorteria. 
    In un secondo tempo, la Resistenza assunse un carattere più organizzato, e nacquero le diverse bandiere: fiamme verdi (cattolici), garibaldini (comunisti), azzurri (badogliani) eccetera. 
    Un’opinione diffusa quanto sbagliata è quella che tende ad associare la Resistenza ad un fenomeno "di sinistra": la resistenza fu trasversale all’intero scenario politico antifascista e, al suo interno, cattolici ed azionisti ebbero un peso rilevantissimo; lo stesso equivoco sarebbe stato alimentato ad arte all’inizio delle rivolte giovanili del ’68. 
    Di nuovo, lo storico dovrebbe esaminare i rapporti tra le varie componenti della Resistenza con occhio sereno; invece, a parte qualche coraggiosa eccezione, parlare di scontri tra partigiani di opposte fazioni o di delitti commessi da resistenti sembra una bestemmia. 
    In realtà, tra i vari schieramenti che componevano l’esercito partigiano, esisteva lo stesso buon sangue che correva tra le nazioni belligeranti dalla stessa parte della barricata; con la differenza che queste non potevano venire alle mani, mentre i partigiani sì. A parte l’eccidio di Malga Porzûs, reso recentemente celebre da un film tragicomico, la storia della guerra partigiana è piena di piccoli e grandi drammi, legati all’intolleranza tra gruppi di diverso orientamento; in questi scontri, bisogna dire, la parte più spietata ed efferata l’hanno sempre impersonata i partigiani comunisti. 
    Perfino nelle tranquille Prealpi Orobie, parecchi dei caduti partigiani non sono stati vittime del piombo nazifascista, bensì di quello di qualche sten amico. 
    Questo, sia chiaro, non toglie nulla al valore di tanti resistenti, e di tanti caduti; ma è bene che si sappia, che le carogne non stanno mai da una parte sola, e che, in una guerra fratricida, alcuni sono fratricidi al quadrato. 
    Vorrei aggiungere a questo discorso una postilla: ai partigiani comunisti italiani, aggregati al IX Corpus Yugoslavo, dell’Italia non importava né punto né poco; tant’è che volevano Trieste yugoslava. L’amore della sinistra per il tricolore (o, almeno, per quello bianco, rosso e verde, giacché anche la bandiera Yugoslava aveva tre colori) è scoperta recente. 
    Rimane da dire dei massacri avvenuti a ridosso del 25 aprile. 
    Che vi siano stati è indubbio: fonti non sospette parlano di mille, forse duemila morti, in ognuna delle grandi città del Nord, anche se viene, soprattutto dalle fonti militari alleate, sottolineata l’estrema confusione, che rendeva assai difficile un calcolo attendibile. Una stima accreditata indica in circa 15.000 il totale delle vittime delle "vendette": fascisti, delatori, aguzzini e poveracci che si trovavano nel posto sbagliato al momento sbagliato. 
    Siamo, come si vede, assai lontani dalle centinaia di migliaia di vittime indicate da fonti di destra. 
    Siccome la verità non si saprà mai, tanto vale lasciare perdere questa macabra conta: nel cuore di chi ha perso i propri cari, un singolo lutto vale per mille. 
    Il problema, parlando storicamente, è un altro: dove sono i resti, perché chi sa non ha mai parlato, quali sono state le cause delle esecuzioni e, soprattutto, chi è stato ucciso? Un’omertà sconcertante copre quasi tutti gli omicidi di mano partigiana: quelli del Triangolo rosso dell’Emilia come quelli liguri, piemontesi, lombardi, del Triveneto. 
    Ancora oggi si ignora come morirono tanti ragazzi di Salò: scomparsi nel nulla. Affiorano, qua e là, fosse comuni; poveri resti che la terra, più pietosa degli uomini, rende, se non ai familiari, almeno ad una sepoltura cristiana: e nessuno sa niente, nessuno parla. 
    Presto, per ragioni anagrafiche, i testimoni di questi delitti saranno del tutto scomparsi; e così non potremo più avvicinarci alla verità. Eppure, in quei nastri registrati dagli Isrec, probabilmente, si trovano parecchie risposte a queste domande; se così fosse, prima o poi è auspicabile che qualche verità verrà a galla, e che qualche ferita ancora aperta si potrà rimarginare. 
    Verrebbe da porre questioni specifiche, di cui sposiamo un solo caso, perché a noi vicino: chi era il sedicente ufficiale inglese (in realtà, pare, italianissimo) che si faceva chiamare "Mohicano" e che volle il massacro, a guerra finita, di decine di giovanissimi militi della Rsi prigionieri in Alta Valle Seriana, noto come eccidio di Rovetta? Chi certamente sa come andarono le cose è ancora vivo, e non ha mai voluto parlare. 
    Questo è solo uno dei tantissimi esempi; ma è paradigmatico di un modo di pensare: per coloro che tacciono, la guerra non è mai finita. 
    Si chiude con questa amara considerazione il discorso sulla guerra civile, con la consapevolezza che l’argomento, vastissimo e complesso, è stato trattato in modo molto superficiale; noi speriamo che, al di là della magrezza delle argomentazioni, imposta dalla tirannia dello spazio limitato, rimanga, se non altro, l’impressione di uno sforzo per superare polemiche vetuste e per cercare di leggere la storia nazionale con una luce diversa; ma per questo, forse, bisognerebbe che storici di opposte convinzioni politiche, anziché battibeccare, imparassero a collaborare per il bene della scienza. 
 
L'olocausto e gli olocausti 
 
    Cominciamo col dire che termini come "Revisionismo" e "Negazionismo", applicati dapprincipio alla Shoah e, per estensione, a molti altri temi, non pertengono alla storia (uno viene dall’economia e l’altro è un conio recente) e, perciò, non li faremo nostri. 
    Che la storiografia, poi, si fondi sulla continua revisione è cosa talmente evidente da non meritare che le si sacrifichi altro spazio. Negare o, peggio, cercare di giustificare lo sterminio degli ebrei è un’operazione umanamente riprovevole e storicamente insensata; questo sia detto, sperando di sgombrare anche qui il campo da speculazioni ed equivoci di comodo. 
    Un errore commesso dalla storiografia non allineata a sinistra è stato spesso quello di voler contrapporre, sul tema dell’Olocausto come su altri temi, una storia ad un’altra storia: in realtà, come sempre dovrebbe avvenire, la storia è solo una, cui si può giungere (se ci si giunge) per vie diverse. 
    Non staremo qui a distinguere tra le fasi dello sterminio (che Hillberg ha chiarito con acutezza esemplare), né a ripetere la tristissima querelle sulla conta delle vittime: valga quello che si è detto sui caduti della Rsi. Diciamo soltanto che le ragioni, per quanto aberranti, della Shoah, vennero di lontano, e non furono un’idea congenita di Hitler; a questo, aggiungiamo una considerazione che ci preme moltissimo, sul fatto che l’immenso risalto dato all’olocausto ebraico abbia completamente eclissato altri olocausti, certo meno numerosi, ma ugualmente orrendi. 
    Dire che l’antisemitismo in Europa abbia radici profonde è dire cosa ovvia: il nostro Medioevo, per esempio, è paradigmatico a riguardo. 
    La barbara tradizione dei Pogrom si diffuse ampiamente nei paesi slavi, e durò fino alla Seconda guerra mondiale ed oltre. Sui motivi di questo odio si sono scritti chilometri di pagine, e noi non ne aggiungeremo, se non per consigliare almeno la lettura di quanto Karl Marx scrisse, a suo tempo, sulla questione dell’emancipazione ebraica: potrebbe essere una lettura illuminante… 
    Il razzismo pseudodarwiniano del primo Novecento, coniugandosi alle fobie personali di Hitler avrebbe potuto fare il resto; ma tutto questo doveva, invece, poggiare sul piedistallo di un forte sentimento antisemita che da tempo aveva raggiunto punte assai elevate, anche in paesi democraticamente insospettabili. 
    Che dire, ad esempio, del grottesco repertorio antisemita degli antidreyfusiani ai tempi dell’Affaire? In realtà, però, nonostante questi prodromi, gli ebrei non ebbero, se non in minima parte, percezione della tempesta che si affollava su di loro, e si lasciarono catturare e sterminare quasi con meraviglia. La verità è che era difficile per loro credere che i loro vicini, i compagni di scuola o di lavoro, potessero averli odiati a tal punto senza aver mai fatto trapelare nulla; e anche per noi, oggi, lo è: tuttavia avvenne. Resta da stabilire se i tedeschi qualunque sapessero della "Soluzione Finale": probabilmente molti ne avevano il sospetto, tuttavia, in mancanza di certezze, ognuno preferiva fare finta di nulla. 
    Certamente sapevano gli Alleati, che più volte rifiutarono scambi con i nazisti di prigionieri ebrei in cambio di automezzi e che giudicarono i forni crematori di Birkenau "obiettivi di scarso interesse militare", come si legge nei documenti dello S.B.C. alleato. 
    Uno storico più malizioso di me scriverebbe che, sotto sotto, i tedeschi, eliminando gli ebrei, avevano fatto un piacere a parecchia gente; basti pensare che il più accanito sterminatore di ebrei dopo Hitler fu Stalin! 
    Tuttavia, non è solo della Shoah che si vuole parlare in questo paragrafo: moltissimi altri ne hanno scritto assai più a lungo di quanto possiamo fare noi. 
    Vorremmo, viceversa, ricordare tutti quegli olocausti che sono stati frettolosamente archiviati dalla storiografia, e che, invece, potrebbero farci capire molti drammi dei nostri giorni. Così, dedichiamo le ultime righe di questo inserto alla memoria delle vittime dimenticate. 
    Ai milioni di soldati russi morti nei campi di concentramento tedeschi nel 1941-42 e a quelli tedeschi morti nei campi alleati dopo il 1945, ai militari polacchi gettati dai sovietici a decine di migliaia nelle fosse comuni di Katyn (che fino alla caduta dell’Urss venivano attribuiti ai tedeschi). La loro condizione di prigionieri di guerra, secondo il dettato della Convenzione di Ginevra, avrebbe dovuto proteggerli, ma la guerra totale non accetta convenzioni, e morirono di fame, di stenti, di malattia, fucilati o uccisi a bastonate. 
    Ancora oggi è così. 
    Alle donne della Slesia, della Prussia, delle repubbliche Baltiche, dell’Ucraina, violentate e massacrate a milioni dai soldati dell’Armata Rossa; e alle donne italiane della Ciociaria, date in pasto a migliaia ai Marsouins marocchini del generale Juin, lasciati liberi di stuprare e saccheggiare le case dei vinti come premio per la conquista di Cassino. 
    La loro condizione di donne e di madri avrebbe dovuto proteggerle dalla furia bestiale dei vincitori; ma i vincitori, in quella guerra totale, erano i padroni assoluti dei vinti e, nelle donne, violentavano ed umiliavano l’orgoglio di un popolo, in un atto di barbarie tribale. 
    Ancora oggi è così. 
    E ci tornano alla mente i cetnici serbi ammazzati dagli ustascia croati, le centinaia di migliaia di serbi soppressi nei campi di sterminio di Pavelic; ma anche i croati e gli sloveni ferocemente sterminati dai titini: i Beli e i Domobranci di Borovnica e di Skofija Loka. 
    Tutto questo non può non farci pensare alle radici delle pulizie etniche e dei massacri che hanno insanguinato i Balcani negli ultimi dieci anni, e che trovano, in parte la loro giustificazione in altre stragi, in altri massacri, di una guerra sporca. 
    Infine, scusandoci se abbiamo dimenticato tanti altri, non ci stancheremo mai di ricordare gli italiani, uomini, donne, bambini, gettati nelle foibe triestine, goriziane, istriane: mitragliati con le mani legate dal filo di ferro, annegati, mazzerati, bruciati, a decine di migliaia, nel settembre-ottobre 1943 e nei giorni immediatamente precedenti e successivi alla "liberazione" con la paradossale giustificazione di una giustizia democratica che mascherava soltanto un ferocissimo odio razziale. 
    E pure ricordare come furono accolti in Italia coloro che fuggivano da quegli orrori fa parte della storia del nostro Paese e della sua sinistra, che oggi glissa su quei morti e su quei vivi per non doversene vergognare: sarebbe una grande vittoria per la civiltà se nelle strade e nelle piazze d’Italia comparissero manifesti simili a quelli attaccati un po’ ovunque per l’assurda pochade sui libri scolastici faziosi, ma stavolta con la foto di un crocifisso delle foibe, e la stessa scritta: "Mai più!". 
    Anche a nome di chi non si pentirà mai, a tutte le vittime di tutti gli olocausti di quella sporca guerra, da queste pagine chiediamo perdono.  

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