L'ITALIA 1939-1945: STORIA E MEMORIA
Convegno all'Università Cattolica di Milano
24-26 MAGGIO 1995
fra cui le sessioni:
"I fronti di guerra e la prigionia in mano alleata"
"I prigionieri italiani nei campi americani, inglesi, francesi"
"Cooperatori e non cooperatori"
"Guerra senz'armi"
"La memorialistica della RSI: il caso delle Ausiliarie"
"La questione sociale e sindacale nella memorialistica della RSI"
"I lavoratori italiani nel Terzo Reich".
GLI STORICI FINALMENTE RICORDANO I POW
A.B.
Dimenticati per oltre mezzo secolo, i prigionieri
di guerra italiani finalmente diventano argomento nelle sedi ufficiali.
Per la verità, degli internati militari in Germania qualcosa è
stato detto in questi anni e anche dei prigionieri in mano sovietica. Strumentalizzando
però gli uni e gli altri per attaccare da una parte il Nazismo e
dall'altra il Comunismo. Sulle restanti centinaia di migliaia di soldati
vissuti per lunghi anni in cattività, disseminati per un po' in
tutto il mondo, silenzio assoluto. Qualche mese fa s'è mossa l'Università
di Firenze ( vedere su Volontà" di dicembre) ed ecco ora in
forma anche più consistente l'Università Cattolica del Sacro
Cuore di Milano. Non è stato un convegno specificatamente dedicato
ai prigionieri di guerra, ma questo argomento ha occupato una delle sei
sezioni dell'iniziativa, sezione che ci pare sia stata anche quella che
ha avuto un maggiore numero di ascoltatori, in prevalenza giovani studenti
evidentemente desiderosi di conoscere una storia che nessuno ha mai raccontato
loro, né hanno mai letta sui libri di scuola.
Giovedì mattina (il convegno è iniziato
la mattina del mercoledì 24 maggio e s'è concluso nel tardo
pomeriggio del venerdì), durante la riunione presieduta dal prof.
Giorgio Rochat, s'è parlato su "I fronti di guerra e la prigionia
in mano alleata" (il tema del convegno - ospitato nel salone dedicato
a Pio XI - era "l'Italia 1939-1945: storia e memoria"). Lo stesso
Presidente ha confermato quel che abbiamo premesso anche noi, cioè
i prigionieri di guerra sono rimasti per mezzo secolo dimenticati, salvo
la strumentalizzazione politica che se n'è fatta per gli internati
in Germania e i prigionieri in Russia. Rochat ha evidenziato però
le difficoltà oggettive derivanti dalla generale scarsa propensione
dei prigionieri di guerra a raccontare le loro storie, quasi volessero
dimenticare quei giorni. "Al prigioniero - ha affermato Rochat - resta
come un blocco interno certamente provocato dal logoramento patito durante
anni di cattività, che per ognuno d'essi è stato come un
lungo inverno che non si può raccontare". Difficoltà
a reperire la memorialistica, perciò diventa preziosa la documentaristica
come prova ha fornito Ia prof. Marina Rossi, dell'Università di
Trieste con una relazione sui prigionieri italiani in Russia nei documenti
riservati degli archivi ex sovietici". Nel suo saggio la relatrice
ha inquadrato bene lo stato di fatto costituito da quel "senso di
abbandono e di solitudine in cui viene a trovarsi il reduce rientrato dalla
prigionia, figura scomoda per tutti gli eserciti, divenuto oggetto d'indagini
da parte di singoli studiosi solo in tempi recenti anche in Russia".
E proprio le ricerche, che continuano, di questa studiosa negli archivi
sovietici sono destinati a riscrivere compiutamente questa tragica storia.
La Rossi, infatti, già nella sua contenuta relazione è stata
ricchissima di testimonianze riprese direttamente dalla documentaristica
sovietica, che con "un singolare intreccio di fonti consente di analizzare
abbastanza in profondità le condizioni di vita degli internati in
un'area di fortissimo disagio".
Su "I prigionieri italiani nei campi americani,
inglesi, francesi" ha parlato il dottore Pier Silvio Spadoni, laureatosi
con una tesi sullo stesso argomento che "Volontà" qualche
anno fa pubblicò integralmente. "Psicologicamente - ha detto
Spadoni - il catturato si sente irriconoscibile e sprofonda in uno stato
di smarrimento a cui reagisce secondo le proprie riserve morali".
E, quindi, evidenziando le pene del prigioniero Spadoni ha ricordato che
il catturato viene sottoposto a "interrogatori, perquisizioni anche
umilianti, trasferimenti faticosissimi e a volte inumani per raggiungere
la destinazione stabilita dal vincitore". Un'analisi, quella di Spadoni,
precisa pur se molto sintetica perché la relazione, per ragioni
di tempo, doveva essere molto contenuta. E' stata, pur se ridotta, una
utilissima guida per chi può essere interessato alla prigionia dei
militari italiani in Africa.
Un tema anche più vasto quello affrontato
dal prof. Massimo Ferrari, dell'Università Cattolica, su "Cooperatori
e non cooperatori". E' stato soltanto un accenno, possiamo definirlo,
è stata soltanto l'impostazione di un problema che ha avuto facce
diverse non soltanto nei diversi campi ma addirittura nel medesimo campo.
Evidente che proprio per questa diversità l'argomento ha bisogno
di ben altra trattazione. E già molto, comunque, e ne conveniamo,
che si sia gettato il sasso nello stagno dell'oblio, perché è
questa - che noi si sappia - la prima volta che in una sede ufficiale,
in una sede universitaria, accademica, si è parlato di cooperatori
e di non cooperatori con riferimenti precisi e soprattutto con il proposito
di iniziare una ricerca, uno studio organico sul tema tanto impegnativo.
Il prof. Rochat, commentando la relazione del più giovane collega,
ha precisato: "Certamente l'argomento ha bisogno della memoria, ma
insieme con la stessa anche di studi, di ricerca alle fonti ufficiali per
un lavoro che si rifaccia al pragmatismo britannico. Per esempio, non va
taciuta l'azione di squadre di estremisti che nei campi del Kenya hanno
provocato addirittura morti da una e dall'altra parte. Un lavoro improbo,
perché si tratta di memorie parcellizzate e differenti, perché
il comportamento nel campo indiano di Yol non è stato uguale a quello
nei campi americani, inglesi e sud-africani. Una buona fonte a questo proposito
potrà essere il mensile "Volontà", anche se spesso
pare troppo di parte".
La sezione - che aveva preso l'avvio con la relazione
del prof. Lucio Cera "Su voci dai vari fronti" - s'è conclusa
con "Guerra senz'armi" con la quale la prof. Anna Bravo, dell'Università
di Torino, ha ricordato con una serie di documentazioni originali il pesante
sacrificio pagato dalle donne e dai bambini.
Sono seguite le testimonianze. II nostro Manzoni
ha sinteticamente ricordato la sua storia e quella dei suoi cari: altri
fratelli in guerra e i familiari morti sotto il bombardamento americano
di Zoagli. "A Hereford, nel Texas, - ha detto Manzoni - sono giunto
il 28 giugno 1943. Il 6 gennaio 1944 sono stato mandato al "compound
1" insieme con altri 64 ufficiali perché, su evidente segnalazione
di qualche italiano, ero ritenuto fascista e qui raggiunto da altri ufficiali
che non intendevano collaborare con il detentore". Manzoni ha quindi
esposto in breve le ragioni politiche della non collaborazione evidenziando
l'apprezzamento finale degli americani per l'atteggiamento da veri soldati".
Zini, ufficiale prigioniero a Weingarten, nel Missouri,
fungeva da interprete e con tale funzione venne poi inviato in un campo
del Nebraska. Non voleva collaborare, venne però convinto a farlo
con la minaccia di severe punizioni. Rimandato a Weingarten. Pur trattandosi
di un campo di cooperatori, qui il trattamento previsto dalla Convenzione
di Ginevra non veniva rispettato. Allora riuscì a farsi mandare
a Fort Mead, presso Washington, per il servizio di censura della corrispondenza
dei prigionieri tedeschi. Zini ha concluso la sua testimonianza confermando
che, contrariamente a quel che si vuol far credere, lo spirito del soldato
italiano combattente in Africa Settentrionale nonostante tutto era stato
sempre molto alto.
Simpaticissimo il gesto del nostro Manzoni, che
alla fine ha stretto la mano a Zini accompagnando il suo gesto con queste
parole: "Ecco un cooperatore onesto, perciò, dopo cinquant'anni
da quei giorni, desidero stringerti la mano a nome di tutti i NON".
Molto vicini a "Volontà", pur non
essendo direttamente legati al tema dei prigionieri, gli argomenti trattati
nel pomeriggio dello stesso giovedì nella sezione "La memoria
divisa: 1943-45", presieduta dal prof. Gabriele Ranzato. II
periodo coinvolgeva partigiani e RSI, il primo argomento ha dilagato, o
quasi, però di eccezionale interesse è stata la relazione
della prof. Anna Lisa Carlotti su "La memorialistica della RSI: il
caso delle Ausiliarie". Una serie di testimonianze che dimostrano
l'impegno della studiosa e soprattutto l'onestà dello storico. "I
giovanissimi e le giovanissime italiane - ha detto la Carlotti riportandosi
al tempo - invocano fedeltà "alla Patria", all'Italia
dei padri, al giuramento fatto, ai patti firmati, all'onore degli italiani.
La fedeltà al fascismo passa attraverso la fede fascista dei genitori.
La fedeltà a Mussolini appare, in un certo senso, subordinata a
tutto questo". Una relazione veramente "storica", perciò
speriamo nel seguito. Abbiamo avuto l'impressione, infatti, che il tema
abbia coinvolto decisamente la Carlotti, che addirittura ha fatto parlare
direttamente una testimone, Velia Mirri i cui scritti tutti abbiamo da
sempre tanto apprezzato sul periodico "Nuovo fronte".
La Mirri ha narrato in breve la sua storia sino
a quando, alla fine della guerra, venne fatta prigioniera e - insieme ad
altre 300 ausiliarie - in cattività trattata alla stessa stregua
degli uomini. Dal 28 aprile 1945 al 16 maggio in una caserma di Novara,
quindi in un PoW Camp americano sino al 28 novembre. Tra i detentori molta
incertezza nell'organizzazione del recinto poiché non esistevano
precedenti cui rifarsi.
Argomenti piuttosto nuovi quelli del prof. Giuseppe
Parlato su "La questione sociale e sindacale nella memorialistica
della RSI" e del prof. Brunello Mantelli su "I lavoratori italiani
nel Terzo Reich".
Partigiani e resistenza, comunque, durante il convegno
hanno avuto corsie preferenziali e non tanto da parte degli organizzatori
bensì della stragrande maggioranza dei relatori, consapevoli trattarsi
di temi - anche se triti e ritriti - che fan piacere a molti politici e
loro accoliti. Occhio di riguardo a partigiani e resistenti anche nelle
singole testimonianze, tanto vero che Teo Ducci (dirigente dell'AND cioè
l'Associazione Nazionale Deportati) ha potuto - unico tra tutti i presenti,
relatori compresi - prendere la parola per ben tre volte e la prima volta
addirittura con la richiesta provocatoria "Noi, vogliamo sapere perché
hanno scelto l'altra parte" dimenticando, evidentemente, che era stato
lui, a suo tempo, a fare una scelta, perché chi ha combattuto -
come chi scrive questa nota - non ha scelto ma al fronte è andato
su ordine del re Vittorio Emanuele III, che aveva firmato lui - e non Mussolini
- la dichiarazione di guerra e le guerre si fanno una alla volta. E Bruno
Betti contro l'arroganza di Ducci è insorto e Antonio Frassinelli
s'è dichiarato avvilito davanti a spettacoli del genere "perché
- ha detto - ognuno ha vissuto le sue sofferenze, ognuno ha pagato in proprio,
perciò tutti hanno diritto di raccontare la loro pena".
Purtroppo qualche volta chiamiamola ambigua ineleganza
è stata rilevata, a cominciare dal prof. Sarfatti, che in sede di
"tavola rotonda" finale ha parlato di lacuna del Convegno perché
lo stesso non aveva previsto una relazione sugli ... zingari nel periodo
della RSI. II dott. Ferrante a sua volta ha accusato un'assenza internazionale
di memoria giuridica relativamente al periodo 1943-1945, ha detto che qualcosa
vive soltanto in Italia (negli altri Paesi molto più intelligentemente
si è cercata la pace nazionale e non, come invece si fa da noi,
alimentando di continuo rancori e divisioni con un fine non dichiarato
ma evidente a chiunque abbia un po' di sale in zucca, n.d.r.). II solito
Ducci ha voluto finire in ... bellezza (ne aveva il diritto, che gentiluomo!,
poiché figurava nel Comitato scientifico del Convegno) riconoscendo
che tutti hanno sì diritto di raccontare le loro memorie, ma sarà
poi lo storico a fare le opportune valutazioni, "però - ha
concluso - sia ben chiaro che esiste uno spartiacque tra noi e loro (e
questo - dopo oltre mezzo secolo - in barba all' unità nazionale,
aggiungiamo noi).
Ma la prof. Anna Luisa Carlotti (vera anima del
Convegno, che per svolgere bene tutti i temi avrebbe avuto bisogno di più
tempo e al quale ha fornito un non trascurabile aiuto il prof. Massimo
Ferrari) ha concluso i lavori con un'elegante intelligente considerazione
"non c'è subordinazione tra storia e memoria, non esistono
fonti di serie A o di serie B, lo storico utilizza tutte le fonti che può
avere a disposizione senza lasciarsi influenzare da motivi esterni"
e personalmente ci ha fatto ancor più piacere la sua precisa dichiarazione
"questo Convegno è stato, ha voluto essere un punto di partenza".
Grazie, prof. Carlotti, e buon lavoro!
VOLONTA' N. 6-7 1995 (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)
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